Ci sono novità sugli errori di Facebook con i video

Nuovi documenti suggeriscono che Facebook sapesse che i numeri dei video visti dai suoi utenti erano gonfiati, ma che non disse niente per più di un anno

(JOEL SAGET/AFP/Getty Images)
(JOEL SAGET/AFP/Getty Images)

Secondo nuovi documenti presentati nell’ambito di un causa intentata nei confronti di Facebook da un piccolo gruppo di inserzionisti di pubblicità in California, il social network avrebbe volutamente gonfiato per più di un anno il tempo medio trascorso dagli utenti a guardare le inserzioni video a pagamento. La causa risale al 2016, quando David Fischer, vice-presidente della sezione Business e Marketing di Facebook, ammise in un post che a causa di un errore tecnico il numero di visualizzazioni delle inserzioni video era stato stimato molto maggiore di quanto lo fosse effettivamente. Ora però Facebook è accusata di aver gonfiato enormemente i dati e di averlo fatto consciamente almeno per un anno, provocando grossi danni economici a chi intanto pagava per farsi pubblicità.

L’errore del 2016 e gli sviluppi recenti
Secondo un’inchiesta pubblicata dal Wall Street Journal poco dopo le ammissioni di Fischer, a causa di un errore Facebook aveva gonfiato del 60/80 per cento i numeri delle inserzioni pubblicitarie per due anni. Poco dopo, un gruppo di inserzionisti pubblicitari che aveva pagato per pubblicità su Facebook fece causa al social network sostenendo che quell’errore avesse penalizzato loro e tanti altri inserzionisti in giro per il mondo. Con una serie di nuovi documenti processuali resi pubblici martedì 16 ottobre, però, gli inserzionisti sostengono che potrebbe essersi trattato di frode: secondo i querelanti, infatti, Facebook avrebbe saputo dell’errore per più di un anno, e non l’avrebbe comunicato fino al settembre 2016, ingannando quanti in quel periodo continuarono a pagare per farsi pubblicità sul social network.

Nei documenti si legge che Facebook si accorse dell’errore all’inizio del 2015, ma decise di non correggerlo immediatamente, continuando a fornire agli inserzionisti dati falsi deliberatamente. A queste conclusioni sono arrivati i legali degli inserzionisti dopo aver visionato circa 80mila pagine di documenti interni di Facebook, che secondo loro dimostrerebbero anche che Facebook gonfiò i numeri molto più di quanto stimato dall’inchiesta del Wall Street Journal: tra il 150 e il 900 per cento.

Facebook ha risposto alle accuse negando qualsiasi loro fondamento, e si è affrettata a respingere l’accusa di frode. Un responsabile di Facebook parlando con il Wall Street Journal ha detto che «la sola ipotesi che noi abbiamo potuto in qualche modo cercare di nascondere questo problema ai nostri utenti è falsa. Abbiamo comunicato l’errore agli inserzionisti nel momento in cui lo abbiamo scoperto».

Dal “pivot to video” a oggi
La notizia dell’errore già nel 2016 fece molto discutere, soprattutto visto che da alcuni anni Facebook aveva puntato molto sul formato video. Nell’anno precedente aveva introdotto per la prima volta i video in diretta, che grazie a una modifica dell’algoritmo apparivano spesso in cima al NewsFeed degli utenti, prima di tutte le altre notizie. Inoltre Facebook firmò con alcune testate giornalistiche (anche italiane) accordi che prevedevano un compenso alle testate che producessero video in diretta, incentivando così tutti gli altri produttori di contenuti su Facebook a investire nei video. Nel 2016, durante un’intervista al Mobile World Congress, Zuckerberg disse che nel giro di pochi anni la maggior parte dei contenuti visualizzati dalle persone su Internet sarebbe stato fatto di soli video.

Era la cosiddetta strategia “pivot to video” (traducibile con qualcosa come “da ora solo video”), che ha costretto aziende, pubblicitari, personaggi pubblici e giornali a riorganizzare la propria presenza sul più importante social network al mondo, investendo maggiormente nella realizzazione di video, in alcuni casi a scapito di altre figure professionali. Si è trattata di una piccola rivoluzione per l’informazione digitale, da anni nel mezzo di una crisi dei ricavi e alla ricerca – finora infruttuosa – di nuovi sistemi per guadagnare facendo giornalismo online. Per un po’ nel settore dei media, “pivot to video” era sembrato il mantra da seguire per finalmente provare ad ottenere dei ricavi da Facebook, che per molti siti di news era una delle principali fonti di traffico, se non la principale (le cose sono da allora molto cambiate).

È successo quindi che sempre più siti di news, nel corso degli ultimi anni, abbiano iniziato a licenziare personale addetto alla scrittura, in favore dei videomaker. È il caso per esempio di Mic, un sito americano rivolto soprattutto a persone giovani e che punta molto su Facebook: nell’agosto del 2017 licenziò 25 dipendenti per dare maggiore priorità alla produzione di video. Ma cose simili sono successe anche nelle redazioni di Vice, Mashable, MTV News, Bleacher Report, e tanti altri, che negli ultimi due anni hanno deciso di riorganizzare il loro personale in questo senso. Se usate Facebook, vi sarete accorti di quanto siano aumentati i video negli ultimi anni.

Cosa rischia Facebook ora?
Se confermata, l’accusa di aver gonfiato i numeri dei video deliberatamente sarebbe un altro duro colpo alla credibilità del social network, che nell’ultimo anno ha dovuto affrontare una serie di scandali – su tutti quello di Cambridge Analytica – che hanno portato l’azienda a perdere in un solo giorno il 19 per cento del suo valore in borsa, come mai era successo prima a Wall Street, e a crescere da allora meno del previsto. Ma se fino ad ora le principali vittime degli errori di Facebook erano stati gli utenti, con i problemi legati alla sicurezza e alla privacy, ora con la notizia dei dati delle inserzioni pubblicitarie falsificati, il rischio non è più che Facebook perda utenti, ma che perda la fiducia dei suoi unici clienti: quelli che investono soldi in pubblicità.