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  • Martedì 10 luglio 2018

Cosa succede nel governo britannico

Qual è la questione di Brexit che ha provocato le dimissioni di due importanti ministri in due giorni, e perché per ora la prima ministra Theresa May non rischia di perdere il suo incarico

Theresa May, martedì mattina (Dan Kitwood/Getty Images)
Theresa May, martedì mattina (Dan Kitwood/Getty Images)

Nel giro di due giorni, tra domenica e lunedì, si sono dimessi due importanti ministri del governo del Regno Unito, in aperta polemica con la prima ministra Theresa May: David Davis, ministro per Brexit, e Boris Johnson, ministro degli Esteri. Davis e Johnson avevano posizioni influenti sia nel governo che nel Partito Conservatore, e le loro dimissioni – motivate con un profondo dissenso rispetto a come si sta sviluppando l’uscita del Regno Unito dal’Unione Europea – hanno messo in luce le lotte interne al partito e al governo, e hanno portato qualcuno a prevedere la fine politica di Theresa May.

Hard Brexit, Soft Brexit
Le dimissioni di Davis e Johnson, come hanno spiegato loro stessi, hanno a che fare con l’accordo trovato venerdì scorso dal governo britannico sul nuovo piano per Brexit da proporre all’Unione Europea, che loro giudicano troppo morbido e moderato. Il piano – il cosiddetto “Chequers agreement”, dal nome della residenza estiva della prima ministra dove si è tenuta la riunione – è stato trovato dopo lunghe trattative interne: è una mediazione tra le diverse posizioni interne al governo e al Partito Conservatore, e le richieste fatte dall’Unione Europea. Semplificando, il “Chequers agreement” è un compromesso tra le posizioni di chi vuole una “Hard Brexit”, un’uscita secca del Regno Unito da tutti i trattati e le istituzioni dell’Unione Europea, e quelle di chi vuole una “Soft Brexit”, un’uscita del Regno Unito dalla UE che però permetta al paese di beneficiare ancora del mercato unico, di cui hanno molto bisogno le grandi aziende britanniche.

Il punto più discusso dell’accordo di venerdì riguarda proprio il mercato unico: il piano è chiedere la creazione di un’area di libero scambio fra Regno Unito ed Unione Europea – una via di mezzo fra la partecipazione al mercato unico e la sua esclusione – governata da nuove regole decise insieme. Siccome l’Unione Europea ha sempre detto che non avrebbe accettato che il Regno Unito rimanesse negli accordi per la libera circolazione delle merci ma non in quelli per la circolazione delle persone, il governo britannico ha deciso di proporre anche procedure “facilitate” per la circolazione di persone all’interno dell’area. Sono due posizioni di compromesso che non sono piaciute a Davis e Johnson, che nonostante le avessero votate hanno deciso di dimettersi.

Cosa vuol dire per Theresa May
Da quando è entrato in carica, nelle settimane successive al referendum su Brexit, il governo May sta facendo operazioni di grande equilibrismo politico per tenere insieme tutte le correnti del Partito Conservatore – e quindi la maggioranza in Parlamento – e la necessità di attuare l’uscita dall’Unione Europea senza fare danni troppo gravi al paese. Se per esempio il Regno Unito uscisse improvvisamente dal mercato unico europeo, centinaia di aziende britanniche che vivono sulle esportazioni verso l’Europa sarebbero nei guai, e così decine di migliaia di posti di lavoro. Allo stesso modo, se il governo decidesse di rimanere nel mercato unico senza nessuna riforma dello status quo, perderebbe immediatamente il sostegno di circa una cinquantina di parlamentari, e quindi perderebbe la maggioranza in Parlamento: oltre a tradire probabilmente il mandato assegnatogli dagli elettori col referendum.

Le dimissioni di Davis e Johnson hanno messo in discussione gli equilibri che si erano trovati dentro al Partito Conservatore e hanno fatto agitare i politici e parlamentari che consideravano Davis e Johnson i garanti nel governo della linea dura su Brexit. Qualcuno ha parlato di una mozione di sfiducia nei confronti di Theresa May, qualcuno ha parlato di affossare la sua proposta per Brexit in Parlamento nei prossimi mesi. Per ora, però, sembra che non succederà niente di tutto questo. Anzi: nonostante due dimissioni di primo piano in brevissimo tempo, May è sembrata sempre in controllo della situazione, come se da mesi si stesse preparando a gestire le conseguenze della decisione (e probabilmente in parte era così).

Il nuovo ministro degli Ester Jeremy Hunt, già ministro della Sanità, considerato un Conservatore serio e moderato, uno di quelli che potrebbe diventare il prossimo leader del partito.

In poche ore sono stati nominati i rimpiazzi di Davis e Johnson – Jeremy Hunt è il nuovo ministro degli Esteri e Dominic Raab il nuovo ministro per Brexit – e nella serata di lunedì May ha incontrato e “controllato” i più insoddisfatti dentro al suo partito. Per ora sono solo una rumorosa minoranza, che non ha davvero i numeri per rimpiazzare May come minacciato da qualcuno: per un voto di sfiducia nel partito servirebbero i voti di circa 150 parlamentari conservatori, mentre al momento non sembra che ci siano nemmeno i 48 parlamentari necessari per chiedere che si arrivi al voto.

Quindi?
Se May fosse stata davvero in difficoltà, oggi sui giornali britannici si leggerebbero titoli catastrofici sullo stato del suo governo. Per ora, invece, la situazione sembra relativamente tranquilla. May non è in un’ottima posizione, ma non è messa peggio di dieci giorni fa e secondo qualcuno sarà un vantaggio per il governo non avere più Boris Johnson come ministro (che non aveva dato prova di grande competenza e disciplina). Anche un giornale conservatore e apertamente pro Brexit come il Sun ha titolato oggi criticando Johnson e dicendo sostanzialmente: se cade il governo May, al momento, rischia di crollare pure Brexit, quindi meglio accettare un compromesso e andare avanti.

Di fatto, questo è quello che sta tenendo a galla il governo britannico. Nessuno ha davvero una valida alternativa da proporre al “Chequers agreement”, con tutti i problemi che molti ci vedono. Se il piano dovesse fallire per una ribellione interna al Partito Conservatore, non è detto che se ne possa presentare uno migliore o comunque uno che verrebbe accettato dall’Unione Europea, che ha sempre il coltello dalla parte del manico (l’Unione infatti può dare le condizioni che vuole). Se si dovesse invece arrivare alle elezioni anticipate, non è detto che per i Conservatori andrà meglio di un anno fa, quando persero la maggioranza e quasi fecero vincere i Laburisti. Con May, quindi, si sono schierati pubblicamente anche diversi esponenti Conservatori tradizionalmente favorevoli a una “Hard Brexit”, come Michael Gove, e personaggi ancora influenti come gli ex leader del partito Michael Howard e William Hague, che hanno invitato tutti alla calma.

E l’Unione Europea?
Tutte queste discussioni interne al partito e intorno al “Chequers agreement” non tengono comunque in conto che qualsiasi sia la linea del governo britannico su Brexit, bisognerà fare i conti con l’Unione Europea. Per ora, visto anche il momento complicato del governo May, non ci sono state da parte dell’Unione Europea risposte ufficiali al piano presentato venerdì scorso. Il capo negoziatore della UE per Brexit, Michel Barnier, non ha preso posizione e non lo hanno fatto nemmeno i leader dei principali paesi europei. Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, è quello che si è esposto di più, e ha scritto su Twitter: «I politici vanno e vengono ma i problemi che hanno creato alle persone rimangono. Posso solo dispiacermi che l’idea di Brexit non se ne sia andata insieme a Davis e Johnson. Ma… chi lo sa?»