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  • Mercoledì 23 maggio 2018

Le cose che diceva Philip Roth

Una raccolta di frasi – sulla famiglia, l'amore, la letteratura – del grande scrittore americano, morto a 85 anni

Philip Roth, nel 1993 
(AP Photo/Joe Tabbacca)
Philip Roth, nel 1993 (AP Photo/Joe Tabbacca)

Philip Roth, uno dei più grandi scrittori statunitensi di sempre, è morto martedì notte a Manhattan, a 85 anni. Lascia 31 libri, di cui 27 romanzi, numerose interviste e una lettera aperta a Wikipedia, una moltitudine di frasi e parole di cui molte memorabili, in cui ha raccontato del perché scrive e del perché ha deciso a un certo punto di non farlo più; della famiglia, dell’identità americana, del sesso come mai nessuno aveva fatto prima, e di come la vita sia un gioco dalla posta altissima che incredibilmente si vince ogni giorno, finché a un certo punto un giorno non più. Ne abbiamo raccolte alcune, senza pretendere però che siano rappresentative della sua produzione. Se non vi bastano potete leggere come iniziano alcuni dei suoi libri più famosi: ma finirete per comprarne almeno uno.

1) «Scavo una buca e la illumino tutta con una torcia»

(Sul perché scriveva, dal New York Times)

2) «Durante una gita del nostro gruppetto familiare estrassi il torsolo di una mela, notai stupito (e sull’onda della mia ossessione) a cosa somigliava, e corsi nella boscaglia per stendermi sull’orifizio del frutto, fantasticando che quel forame fresco e farinoso si trovasse in realtà ubicato tra le cosce della mitica entità che mi chiamava sempre Maschione, quando pietiva qualcosa che nessuna ragazza nell’arco della storia aveva mai ricevuto. “Ah, Maschione, ficcamelo dentro” rantolava la mela cavata che mi sbattei come uno scemo durante quel picnic. “Maschìone, Maschione, sí, dammelo tutto” implorava la bottiglia vuota del latte che tenevo nascosta in un ripostiglio del seminterrato, da infilare vigorosamente dopo la scuola con il mio pinnacolo invaselinato. “Vieni, Maschione, vieni” gridava impazzita la bistecca di fegato che, nella mia insania, avevo comprato un pomeriggio dal macellaio e, ci creda o no, violentato dietro un cartellone mentre andavo a lezione per il bar mitzvah».

(Da Lamento di Portnoy, 1969, nella traduzione di Roberto Sonaglia per Einaudi)

3) «Scrivo cose inventate e mi dicono che sono autobiografiche. Scrivo cose autobiografiche e mi dicono che sono inventate. Visto che sono così confuso e loro [i critici] sono così acuti, lasciamo che decidano loro»

(Guardian)

4) «Non potrei mai scrivere della mia famiglia com’era veramente perché i miei genitori erano gente buona, lavoratrice, responsabile, e questo per uno scrittore è noioso. Quello che ho scoperto inavvertitamente è che se metti sotto pressione questa brava gente americana, ecco, allora ti viene fuori una storia».

(Da un’intervista con A.L. Alvarez per il Guardian, nel 2000)

5) «Perché la caccia era già stata presa»

(Sul perché scriveva di baseball, come gli chiese un giornalista di Sports Illustrated)

6) «Cara Wikipedia,
Sono Philip Roth.

(Dalla lettera aperta a Wikipedia, settembre 2012)

7) «Mi chiedi se i miei romanzi abbiano cambiato qualcosa nella cultura, e la risposta è no. Senza dubbio hanno fatto un po’ di scalpore, ma la gente si fa scandalizzare in continuazione: è uno stile di vita. Non significa niente. Se mi stai chiedendo se avessi voluto cambiare in qualche modo la cultura coi miei romanzi, la risposta è ancora no. Quel che voglio è possedere i miei lettori mentre leggono il mio libro: a riuscirci, vorrei possederli in modi inarrivabili agli altri scrittori. Poi li lascerei ritornare, com’erano prima, in un mondo dove chiunque altro sembra lavorare per cambiarli, convincerli, prendersi cura di loro e controllarli».

(Da un’intervista a Hermione Lee per la Paris Review del 1984)

8) «Così me ne andai al Met e guardai la grande mostra che c’era lì. Era meravigliosa. Dipinti che ti lasciavano senza fiato. Ci tornai il giorno dopo e la rividi. Ma il giorno dopo ancora che potevo fare? E così ripresi a scrivere»

(Di quando cercò di smettere di scrivere una prima volta, nel 2008)

9) «Volevo capire se scrivendo avevo buttato il mio tempo. E pensai che più o meno era stato un successo. Alla fine della sua vita il pugile Joe Louis disse: “Ho fatto il meglio che potevo con quel che avevo”. È esattamente quello che direi del mio lavoro: Ho fatto il meglio che potevo con quel che avevo. A quel punto decisi che con la letteratura avevo chiuso. Non volevo più leggerla, non volevo più scriverla, non volevo neppure parlarne mai più. Alla letteratura ho dedicato la mia vita. L’ho studiata, l’ho insegnata, l’ho letta. È finita che ho escluso quasi tutto il resto. Ne ho abbastanza»

«Ho 78 anni. Non so niente dell’America di oggi. La vedo in tv, ma non ci vivo più»

«Non penso che un nuovo libro cambierà quel che ho già fatto, e se scrivo un nuovo libro sarà probabilmente un fallimento. E chi ha bisogno di leggere un altro libro mediocre?»

(Dall’intervista alla rivista francese Les inRocks in cui disse che non avrebbe scritto più, nel 2012)

10) «Fu nell’estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk – che prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una ventina d’anni professore di lettere classiche al vicino Athena College, dove per altri sedici aveva fatto il preside di facoltà – mi confido che all’età di settantun anni aveva una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al college. Due volte la settimana questa donna puliva anche l’ufficio postale, una piccola baracca rivestita di scandole grigie che pareva aver protetto una famiglia di braccianti dai venti della Dust Bowl negli anni trenta e che, piantata solinga e derelitta a metà strada tra la pompa di benzina e l’emporio, fa sventolare la bandiera americana all’incrocio delle due strade che caratterizzano il centro commerciale di questa cittadina americana».

(L’inizio di La macchia Umana, tradotto da Vincenzo Mantovani per Einaudi)

11) «L’unica ossessione che la gente cerca: l’amore. Pensano, le persone, che innamorarsi sia come diventare parte di un tutto? L’unione platonica delle anime? Non per me. Sei una cosa unica prima di iniziare. Poi l’amore ti frantuma. Sei tutto intero, e poi finisci spaccato»

(L’animale morente, 2001)

12) «In realtà non provavamo quello che provavamo finché non dicevamo di provarlo; almeno non io. Esprimere i sentimenti a parole era come inventarli e poi possederli»

(Addio, Columbus, 1959)

13) «Arrivai a New York e in poche ore, New York fece quello che fa alla gente: mi aprì alle possibilità»

(Il fantasma esce di scena, 2007)

14) «Smonto frasi. È la mia vita. Scrivo una frase e poi la smonto. Poi la rileggo e la smonto di nuovo»

(Lo scrittore fantasma, 1979)

15) «È quel che cerchi quando fai lo scrittore. Cerchi la tua stessa libertà. Vuoi perdere le inibizioni e scavare nella tua memoria, nelle tue esperienze e nella tua vita; e poi trovare la prosa che convincerà il lettore. Quindi sì, mi è piaciuto Il teatro di Sabbath consiglio a tutti di leggerlo»

(Sul suo preferito tra i libri che ha scritto, da un’intervista a The Wrap del 2013)

16) «Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando»

(Pastorale americana, 1997)

17) «È stupefacente trovarmi ancora qui, alla fine di ogni giornata. Andare a letto di notte e pensare sorridendo che “ho vissuto un altro giorno”. E poi è stupefacente risvegliarsi otto ore dopo e vedere che è la mattina di un nuovo giorno, e sono sempre qui. “Sono sopravvissuto a un’altra notte”, penso, e mi viene da sorridere di nuovo. Vado a dormire sorridendo e sorridendo mi risveglio. Sono molto felice di essere ancora vivo. Da quando va così, di settimana in settimana, di mese in mese da quando sono andato in pensione, mi è nata l’illusione che quest’andazzo non finirà mai, anche se ovviamente lo so che può finire da un momento all’altro. È come un gioco che faccio giorno dopo giorno, un gioco dalla posta molto alta che per ora, contro ogni previsione, continuo a vincere. Vedremo quanto andrà ancora avanti la mia fortuna»

(Da un’intervista a Charles McGrath sul New York Times nel gennaio 2018)

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