• Mondo
  • Lunedì 19 marzo 2018

Perché Trump ha licenziato il vicedirettore dell’FBI

La storia di cui si parla da giorni nel mondo della politica americana, spiegata dall'inizio

(Alex Wong/Getty Images)
(Alex Wong/Getty Images)

Nel weekend appena trascorso il mondo della politica americana si è occupato quasi solo del licenziamento del vicedirettore dell’FBI, Andrew McCabe, avvenuto venerdì pomeriggio. L’amministrazione del presidente Donald Trump ha spiegato che McCabe è stato licenziato per aver violato il regolamento interno dell’FBI, ma Trump stesso ha fatto capire che ci sono altre ragioni e hanno a che fare con l’inchiesta speciale che sta conducendo il procuratore Robert Mueller sull’ingerenza della Russia nella campagna elettorale del 2016 e i presunti legami del governo russo con il comitato Trump.

McCabe è solo l’ultimo degli alti funzionari del governo e collaboratori allontanati da Trump durante la sua presidenza, ma il suo licenziamento ha qualcosa di particolare. McCabe infatti è stato licenziato il giorno prima che potesse richiedere la pensione, cosa che ha fatto pensare alcuni giornalisti che il suo allontanamento sia stata “una punizione” più che una questione di gestione del personale.

Trump ha definito il giorno del licenziamento di McCabe «un grande giorno per la democrazia» e ha twittato critiche molto pesanti nei suoi confronti, accusandolo di aver tramato insieme all’ex capo dell’FBI James Comey, licenziato da Trump a maggio del 2017 quando si stava occupando dell’indagine sui legami fra la Russia e il comitato Trump, secondo Trump in modo a lui ostile.

McCabe ha 50 anni, ha studiato da avvocato, e ha passato gran parte della sua carriera nell’FBI, in cui è entrato nel 1996. Era vicedirettore dal febbraio del 2016, quando fu incaricato proprio da Comey: in quel periodo seguì fra le altre cose proprio le indagini sulle ingerenze del governo russo nelle elezioni americane, che erano appena iniziate. Dopo il licenziamento di Comey, McCabe divenne direttore dell’FBI pro tempore. I suoi problemi con Trump iniziarono in quel momento.

In un’intervista a CNN, McCabe ha ricordato di aver avuto quattro conversazioni con Trump durante le settimane in cui rimase direttore: tre di persona e una al telefono. In tutte e quattro le conversazioni, Trump rinfacciò a McCabe che nel 2015 sua moglie Jill si fosse candidata col Partito Democratico a senatrice della Virginia. Trump gli chiese anche per chi avesse votato alle elezioni presidenziali nel 2016 (McCabe è iscritto alle liste elettorali come Repubblicano). Trump si era convinto che McCabe stesse segretamente tramando contro di lui, più o meno come pensava avesse fatto Comey, e iniziò ad attaccarlo pubblicamente.

Il 23 luglio lo definì «un amico di Comey» in un tweet molto critico contro il procuratore generale Jeff Sessions. Due giorni dopo suggerì che fosse fazioso perché sua moglie aveva ricevuto 700mila dollari di donazioni elettorali da Hillary Clinton. Le cose non stavano proprio così: la donazione era di 500mila dollari e proveniva da un fondo riconducibile a un ex governatore della Virginia vicino ai Clinton, ma non da loro in persona. Il 23 dicembre Trump prese di nuovo di mira McCabe sostenendo che «non vedesse l’ora» di andare in pensione. A fine gennaio McCabe comunicò all’FBI che avrebbe lasciato il suo incarico di vicedirettore e avrebbe atteso il raggiungimento dell’idoneità per la pensione, fissata per il 18 marzo, da semplice funzionario.

Nel frattempo però è successa un’altra cosa. L’ispettore generale del dipartimento della Giustizia, che ha l’incarico di supervisionare l’integrità dei dipendenti delle agenzie federali, ha scoperto che nel 2016 McCabe permise a due funzionari dell’FBI di parlare con un giornalista del Wall Street Journal che stava scrivendo un articolo sulla discussa inchiesta dell’FBI sulle email di Hillary Clinton (articolo che peraltro metteva in cattiva luce Clinton, dato che citava l’esistenza di funzionari dell’FBI convinti che fosse il caso di tenere aperta l’indagine).

Di solito ai funzionari che si stanno occupando attivamente di un’inchiesta viene impedito di parlare con la stampa, ma McCabe fece un’eccezione. Mesi dopo, quando l’ispettore generale si era interessato alla cosa, McCabe aveva complicato la sua posizione evitando di fornire all’ispettore una spiegazione esaustiva delle ragioni per cui permise ai suoi funzionari di parlare col Wall Street Journal. La scoperta dell’ispettore generale ha avviato un procedimento disciplinare dell’FBI, che a sua volta il 14 marzo ha raccomandato al procuratore generale Jeff Sessions di licenziare McCabe. Tre giorni dopo Sessions ha accettato la raccomandazione dell’FBI e licenziato McCabe.

In un comunicato diffuso dopo il licenziamento, McCabe si è difeso dalle accuse spiegando che in qualità di vicedirettore gli era permesso parlare liberamente con la stampa, e che anche Comey sapeva dell’articolo del Wall Street Journal. McCabe ha aggiunto di avere collaborato pienamente all’indagine dell’ispettore generale, e insomma di avere agito in buona fede. Ma soprattutto, nel suo comunicato McCabe accusa l’ispettore generale di fare parte di «un tentativo senza precedenti, da parte di questa amministrazione e del presidente stesso, di licenziarmi, distruggere la mia reputazione e probabilmente di privarmi della pensione per cui ho lavorato ventuno anni».

Difficilmente la vicenda di McCabe finirà qui: l’inchiesta di Mueller ha acquisito una specie di diario in cui McCabe ha annotato le sue conversazioni con Trump, più o meno come fece Comey, e potrebbe interrogarlo nuovamente nei prossimi mesi. Una delle cose su cui sta indagando il procuratore Mueller, infatti, è l’ipotesi che Trump abbia tentato e stia ancora tentando di ostacolare la giustizia e l’indagine sulla Russia.