Le foto più belle della settimana della moda di Milano

Le teste mozzate di Gucci le avete viste ovunque, ma D&G ha fatto sfilare le borsette con i droni mentre le modelle di Moschino avevano la faccia blu

Una modella alla sfilata di Dolce & Gabbana, Milano, 25 febbraio 2018
(AP Photo/Antonio Calanni)
Una modella alla sfilata di Dolce & Gabbana, Milano, 25 febbraio 2018 (AP Photo/Antonio Calanni)

Si è conclusa la settimana della Moda di Milano, cioè il periodo in cui – dal 20 al 26 febbraio – i più importanti marchi di moda hanno presentato le loro collezioni per l’autunno/inverno 2018/2019: ci sono state 64 sfilate per un totale di 156 collezioni, attorniate da eventi, feste e dall’inaugurazione di una mostra dedicata alla moda italiana a Palazzo Reale.

La sfilata di cui si è parlato di più – non solo su riviste specializzate e tra appassionati, ma anche tra la gente che normalmente non si interessa di moda – è stata quella di Gucci, con il direttore creativo Alessandro Michele che ha fatto sfilare modelli e modelle in una sala operatoria, con in braccio cuccioli di drago e una replica delle loro teste mozzate. Il messaggio era meno macabro dell’ambientazione e voleva rappresentare il lavoro stesso dello stilista, fatto di recuperi, ricuciture e assemblaggi.

Hanno avuto un certo successo anche Prada, con il suo solito messaggio femminista accompagnato da materiali tecnologici, e Moschino con le modelle-aliene dal viso dipinto di arancione e blu; Donatella Versace ha continuato la riscoperta e valorizzazione del suo archivio per ricordare i 20 anni dalla morte del fratello Gianni (la sfilata era intitolata The Clans of Versace), mentre la collezione di Dolce & Gabbana era dedicata alla moda come esperienza religiosa, come ha spiegato Domenico Dolce: «La moda non è un lavoro, la moda è devozione. Vivi, dormi e mangi con la moda, non smetti mai di parlarne e la ami con tutto il cuore».

Milano continuerà a far parlare di sé e a vendere bene, visti i buoni risultati della moda italiana: le vendite però si appoggiano spesso a capi e accessori più abbordabili pensati appositamente per il mercato, mentre gli stilisti si servono delle sfilate per comunicare la propria idea di moda, creare un mondo e commentare la realtà di fuori. Secondo molti critici di moda, le sfilate di Milano si sono mostrate troppo legate al passato e alla tradizione: sono centrali nel lavoro di Alessandro Michele a Gucci, Versace ha rielaborato i suoi capi, tessuti e accessori distinitivi, Prada ha usato tantissimo nylon, tra i tessuti che ne fecero la fortuna negli anni Novanta, Alberta Ferretti, Krizia e Lorenzo Serafi di Philosophy hanno riproposto gli anni Ottanta, e il nuovo direttore creativo di Roberto Cavalli, Paul Surridge, non si è liberato dal connotato stile animalier. Tra i pochi che hanno proposto qualcosa di nuovo c’è Moncler con il progetto Genius, in cui ha chiesto a otto stilisti di reinventare il suo piumino (tra tutti è piaciuto molto quello di Pierpaolo Piccioli di Valentino). Angelo Flaccavento scrive per esempio su Business of Fashion che la moda italiana è ancora gestita da molte famiglie che fanno fatica a rinnovarsi. Alcune, come Missoni, vanno molto bene perché propongono «sempre la stessa cosa in infiniti modi diversi». Lo stesso, scrive Vanessa Friedman del New York Times, per Giorgio Armani, che ha ripreso, seppur con esiti a volte «fantastici», il suo celebre “greige”, a metà strada tra grigio e beige, e il tailleur pantalone.

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Friedman è stata particolarmente dura con la moda milanese che, secondo lei, non ha saputo riflettere e accompagnare le incertezze di fuori, con le elezioni alle porte: «Il passato è sicuro e alla fin fine “sicurezza” è la parola della settimana. Come spiegare altrimenti l’improvviso bisogno di poncho (cioè tende per il corpo da portare)? […] La sicurezza può essere una tentazione, soprattutto quando essere sexy non importa. Ma non ti porta molto lontano. Pensatela così: fuori dalle sfilate c’era passione e il bisogno urgente di manifestare. Dentro c’erano.. trench».

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