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  • Venerdì 8 dicembre 2017

Il nuovo capo della sinistra israeliana non è proprio di sinistra

Fino all'anno scorso faceva il ministro nel governo Netanyahu, e nei prossimi mesi cercherà nell'impresa complicata di rubargli voti e tenersi i suoi

(JACK GUEZ/AFP/Getty Images)
(JACK GUEZ/AFP/Getty Images)

Fino a un anno e mezzo fa Avi Gabbay era un semisconosciuto ministro del governo di Benjamin Netanyahu, cioè uno dei governi più conservatori nella storia di Israele. Oggi Gabbay è il capo del Partito Laburista, cioè il principale partito israeliano di centrosinistra e quello a cui appartenevano i più venerati politici del paese. Per capire come è stato possibile, bisogna fare un passo indietro.

Il Partito Laburista israeliano è in crisi da diversi anni. Lontano dal periodo in cui vinceva le elezioni con percentuali superiori al 30 per cento, diversi sondaggi lo danno oggi al minimo storico dei consensi. Molti suoi ex elettori lo accusano soprattutto di non aver trovato un modo efficace di fare opposizione a Netanyahu; altri, che non l’hanno mai votato, lo considerano eccessivamente legato al passato e alla sinistra storica. Più in generale, la fine di ogni trattativa di pace anche solo minimamente seria ha reso sempre più impraticabili le posizioni storiche del Partito Laburista, regalando invece visibilità e sostegno a quelle conservatrici e conflittuali, viste da molti israeliani come le uniche adeguate ai tempi. In mezzo alle macerie, Gabbay si è iscritto al Partito Laburista a dicembre del 2016, a marzo del 2017 ha annunciato la sua candidatura per la leadership e quattro mesi dopo ha vinto le primarie del partito, battendo una serie di esperti funzionari ed ex ministri. Ancora oggi, uno degli aggettivi più utilizzati per descrivere la sua vittoria è “scioccante”.

Nonostante oggi Gabbay si definisca un “socialdemocratico”, la sua storia politica non ha molto a che fare con la sinistra. Nato a Gerusalemme da ebrei mizrahì, cioè originari dei paesi arabi, ha studiato economia e dopo il servizio militare ha lavorato come funzionario per il ministero dell’Economia israeliano. Nel 1998 entrò in Bezeq, una delle più importanti aziende israeliane che si occupano di telecomunicazioni, e col tempo ne diventò CEO, carica che ha ricoperto dal 2007 al 2013. Due anni dopo è passato alla politica unendosi al partito centrista Kulanu, fondato da alcuni fuoriusciti moderati del Likud, cioè il partito di Netanyahu. Nello stesso anno fu nominato ministro dell’Ambiente: se ne andò nel maggio del 2016, in polemica con la nomina del conservatore radicale Avigdor Lieberman a ministro della Difesa.

Nei mesi successivi, come ha raccontato il giornalista Anshel Pfeffer in un lungo articolo su Haaretz, Gabbay ha studiato le sue opzioni. Poteva tornare a lavorare nel settore privato, fondare un nuovo partito centrista oppure candidarsi a sindaco di Tel Aviv – la città in cui vive – alle elezioni comunali del 2019. Ne ha scelto un’altra, ancora più difficile: candidarsi a leader di un partito a cui non era mai stato iscritto – che comunque da anni si stava progressivamente spostando verso il centro – per provare a sfidare Netanyahu.

Parlando con Haaretz, Gabbay ha chiarito che il suo obiettivo è proprio battere Netanyahu alle prossime elezioni politiche, che secondo molti Netanyahu stesso potrebbe indire nella primavera del 2018. «È come se fossi seduto al banco di un casinò con una pila di fiches», ha raccontato Gabbay: «potrei investirne alcune per costruirmi un consenso all’interno del mio partito oppure a sinistra. Invece le punto tutte sul provare a battere Netanyahu».

Per ora la sua strategia è cercare di rubare voti all’elettorato di Netanyahu, con la contemporanea conseguenza di fare arrabbiare molti elettori del Partito Laburista. Negli ultimi tempi Gabbay ha escluso la possibilità di allearsi con i partiti arabo-israeliani, ha appoggiato il rafforzamento degli insegnamenti religiosi nelle scuole e fatto dichiarazioni molto vaghe sulle colonie israeliane in Cisgiordania, considerate da molti il principale ostacolo a una pace coi palestinesi. Per di più, Gabbay ha anche tirato fuori un vecchio slogan di Netanyahu: «la sinistra ha dimenticato cosa significhi essere ebrei».

I funzionari del partito sperano che Gabbay riesca a tenersi buoni gli elettori storici del partito, magari con qualche proposta sociale più progressista come le unioni civili, ma soprattutto che attiri un elettorato più trasversale. Al di là delle proposte politiche, potrebbe aiutare anche la figura stessa di Gabbay, molto ambivalente: nato in un quartiere povero di Gerusalemme ma residente a Tel Aviv, la città più progressista del paese; figlio di immigrati che ha fatto successo e ora fa parte a pieno titolo della classe medio-alta; membro della cultura mizrahì – che da tempo vota compatta per il Likud – ma da anni immerso in un ambiente più cosmopolita, e così via.

Al momento i sondaggi dicono che Gabbay ha raddoppiato i consensi che il Partito Laburista aveva in primavera, portandoli intorno al 20 per cento. Questi voti però non bastano per vincere le elezioni: davanti ai laburisti c’è il partito centrista Yesh Atid, dato sopra il 20 per cento, e soprattutto il Likud di Netanyahu, intorno al 25 per cento.