Il sangue giovane può fermare l’Alzheimer?

Per la prima volta l'infusione di sangue da donatori giovani è stata sperimentata in anziani affetti da demenza: i progressi ci sono, ma minimi

(Alex Wong/Getty Images)
(Alex Wong/Getty Images)

Per la prima volta un gruppo di ricercatori ha sperimentato una tecnica per ringiovanire i tessuti di alcuni individui anziani attraverso l’infusione di sangue, ottenuto da giovani donatori. Il test è stato eseguito per verificare gli effetti della procedura su pazienti malati di Alzheimer, ma medici ed esperti suggeriscono di essere prudenti, considerato che l’esperimento ha riguardato solo 18 pazienti e richiederà ulteriori approfondimenti. La sperimentazione ha comunque permesso di verificare la sicurezza della trasfusione di sangue e ha dato qualche indicazione su piccoli miglioramenti nelle routine giornaliere dei pazienti.

Le infusioni di sangue giovane in pazienti anziani per rinvigorire i loro tessuti, e in certa misura ridurre il loro invecchiamento, sono discusse ed esplorate da tempo da numerosi gruppi di ricerca. I test finora erano stati realizzati in laboratorio su cavie animali, come topi, ottenendo risultati in alcuni casi sorprendenti. Nel 2014, per esempio, studi scientifici spiegarono di avere rallentato e in alcuni casi invertito i processi di invecchiamento in alcuni topi anziani, trattandoli con il sangue proveniente da esemplari più giovani della stessa specie. Anche in seguito a quelle sperimentazioni ci si era chiesto se lo stesso risultato fosse ottenibile con gli esseri umani, senza comportare effetti collaterali o pericolose reazioni avverse.

La nuova sperimentazione, la prima di questo genere, è stata realizzata dall’azienda Alkahest di San Carlos, in California, con il coordinamento della neurologa Sharon Sha della Stanford University. Ha coinvolto 18 pazienti tra i 54 e gli 86 anni moderatamente affetti da Alzheimer, forma di demenza degenerativa che porta ad avere difficoltà nel ricordare gli eventi e parte delle proprie esperienze di vita. La malattia, per cui non c’è cura, può essere invalidante e nelle forme più gravi porta a non riconoscere parenti e amici, vivendo in una costante sensazione di spaesamento. La ricerca per identificarne le cause e migliorare la prevenzione prosegue da tempo, ma studi come quelli di Sha potrebbero offrire una soluzione per rallentare la progressione della malattia, e più in generale per capire nuove cose sui processi dell’invecchiamento.

Per un mese, ogni partecipante è stato sottoposto a un’infusione una volta alla settimana: un gruppo di controllo ha ricevuto un placebo (soluzione salina), mentre i restanti pazienti hanno ricevuto del plasma (il liquido in cui sono sospese le cellule sanguigne) ottenuto da prelievi di giovani tra i 18 e i 30 anni, compatibili con i riceventi. Nel corso dello studio, i ricercatori hanno misurato e tenuto sotto controllo il comportamento dei pazienti per verificare se ci fossero miglioramenti nell’umore, nella capacità di ricordare gli eventi e di essere autosufficienti.

Lo studio non ha rilevato reazioni avverse al trattamento, una buona notizia nell’ottica di effettuare altre sperimentazioni, ma non ha nemmeno portato a evidenti progressi nelle capacità cognitive dei pazienti. Una serie di test ha comunque evidenziato una migliore capacità di eseguire mansioni giornaliere da parte dei partecipanti. Rispetto al gruppo di controllo, i pazienti hanno dimostrato miglioramenti nel realizzare alcune azioni quotidiane, come fare delle compere o preparare un pasto. I ricercatori invitano comunque a non sopravvalutare gli esiti della sperimentazione e ricordano di essere ancora ai primordi del loro studio.

Alkahest e ricercatori hanno già in programma un nuovo test con una forma di plasma “personalizzato”, dal quale vengono rimosse proteine e diversi tipi di molecole, seguendo una strada già percorsa negli anni scorsi da chi ha eseguito le sperimentazioni in laboratorio. La ricerca in questo campo si muove in un terreno sostanzialmente inesplorato: gli effetti di tutte le sostanze disciolte nel plasma non sono noti, quindi non è chiaro che cosa possa accadere rimuovendone alcune e lasciandone altre. Gli stessi risultati ottenuti dalle ricerche sui topi sono probabilmente dovuti a interazioni più profonde legate al sangue e su cui non c’è ancora sufficiente conoscenza.

La nuova sperimentazione ha anche sollevato qualche critica e perplessità. Attualmente non c’è una base scientifica solida per questo tipo di esperimenti, considerato che non è mai stato sperimentato l’eventuale effetto del sangue da soggetti giovani in pazienti più anziani con Alzheimer, per i quali non è stato mai impostato un test corrispondente in laboratorio con i topi. Esporre persone anziane a infusioni di plasma da altri soggetti può inoltre essere pericoloso perché in molti casi porta a un’eccessiva stimolazione del sistema immunitario, con il rischio che si sviluppino reazioni autoimmuni che danneggiano altri tessuti e con conseguenze neurologiche. Per procedure di questo tipo non sono previste approvazioni da parte della Food and Drug Administration, l’agenzia governativa che negli Stati Uniti regolamenta farmaci e alimentari, cosa che ha portato molte aziende ad avviare sperimentazioni nel settore.