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  • Venerdì 23 giugno 2017

Cosa fare dei bambini addestrati dall’ISIS

Sono migliaia, sono stati indottrinati e hanno imparato a fare guerre e attentati, ma chi se ne occuperà quando lo Stato Islamico sarà sconfitto?

Un'immagine tratta da un video diffuso dallo Stato Islamico che mostra dei bambini mentre ricevono addestramento militare
Un'immagine tratta da un video diffuso dallo Stato Islamico che mostra dei bambini mentre ricevono addestramento militare

Negli ultimi anni lo Stato Islamico (o ISIS) ha indottrinato e addestrato alla guerra migliaia di bambini e ragazzini: soprattutto iracheni e siriani, ma anche i figli dei cosiddetti “foreign fighters”, i combattenti provenienti da altri paesi. Alcuni sono stati prelevati dagli orfanotrofi o rapiti direttamente dalle famiglie, altri sono stati consegnati dai genitori in cambio di cibo e di 200 dollari al mese, altri ancora sono stati attratti – loro o i loro parenti – dalle idee dello Stato Islamico. Oltre a comparire nei video di propaganda, i bambini vengono addestrati a uccidere e a compiere attentati suicidi: solo a gennaio di quest’anno 51 bambini e ragazzini si sono fatti esplodere a Mosul, in Iraq, e molti altri potrebbero farlo durante la battaglia di Raqqa, che deve ancora entrare nella sua fase urbana e più violenta. Ora la domanda che si fanno molti è: cosa succederà a questi bambini una volta che lo Stato Islamico sarà sconfitto? Non sarà un problema facile da affrontare, anche perché il processo di indottrinamento e addestramento messo in piedi dai jihadisti dell’ISIS è molto solido e articolato.

L’Economist ha raccontato per esempio la storia di Omar, 12 anni, che sei mesi fa è stato ucciso a Deir Ezzor, nell’est della Siria, negli scontri tra lo Stato Islamico e il regime siriano di Bashar al Assad. Omar era stato mandato dal compagno della madre, simpatizzante dello Stato Islamico, in un campo di addestramento gestito dall’ISIS in Siria. Era stato indottrinato per 40 giorni e addestrato per diventare uno inghimasi, i terroristi in grado di usare sia armi leggere che esplosivi, disposti a usare cinture esplosive e pronti a uccidere fino alla fine delle munizioni disponibili. Quando era tornato a casa, prima di ripartire di nuovo per la guerra, Omar era già cambiato, ha raccontato l’Economist:

«Quello che prima era un ragazzino tranquillo e appassionato del cartone SpongeBob, era diventato aggressivo. Diceva a sua madre che doveva smettere di truccarsi, non voleva più salutare le sue amiche femmine e si arrabbiava quando la madre cercava di fargli il bagno. “Ero spaventata a mettermi in maglietta nella mia stessa casa”, ha detto sua madre Amina. “Mi diceva che quelle cose erano proibite dall’Islam. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello”.»

Dopo la morte di Omar, lo Stato Islamico ha permesso alla madre di vedere il corpo di suo figlio per 15 minuti, prima di seppellirlo in una tomba che lei non potrà visitare, in quanto donna.

Il problema di cosa fare con questi bambini riguarda anzitutto la mancanza di programmi mirati di de-radicalizzazione, di cui il governo iracheno è completamente sprovvisto. Finora i bambini sono stati incarcerati: solo in Iraq ci sono 2mila bambini e ragazzini detenuti perché accusati di lavorare con lo Stato Islamico; alcuni di loro hanno raccontato alle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani di essere stati torturati. Un altro problema di cui si è cominciato a parlare negli ultimi mesi riguarda i pericoli per la sicurezza dei paesi europei: le intelligence europee, scrive l’Economist, temono che i bambini addestrati a costruire bombe e odiare l’Occidente potranno entrare più facilmente in Europa di quanto riescano a fare gli estremisti adulti, che sono sottoposti a maggiori controlli.

C’è poi il problema di essere riaccettati nelle proprie comunità. Come ha raccontato Reuters in un recente articolo su un orfanotrofio di Mosul trasformato in un centro di addestramento, alcuni di questi bambini sono musulmani sciiti o yazidi, sottratti alle loro famiglie durante la guerra e appartenenti a comunità i cui membri sono perseguitati e massacrati dallo Stato Islamico. Molto spesso i bambini indottrinati e addestrati non sono visti come delle “vittime” del conflitto: un comandante dei ribelli che combatte lo Stato Islamico in Siria ha detto: «Hanno ucciso i nostri parenti e i nostri amici. Meritano di morire».

Non è la prima volta che in una guerra vengono impiegati dei bambini-soldati e non è la prima volta che finito il conflitto gli stati devono affrontare il problema di reintegrare nella società i bambini addestrati alla violenza. Ogni paese ha però le sue peculiarità e le soluzioni trovate finora non sembrano essere del tutto compatibili con la situazione di Siria e Iraq. In diversi programmi sperimentati finora, per esempio, è risultato centrale il ruolo delle famiglie, un fattore che però potrebbe mancare nel re-inserimento di molti bambini reclutati o rapiti dallo Stato Islamico (o perché i genitori sono stati uccisi, o perché sono stati gli stessi genitori a consegnare i figli ai jihadisti). In Iraq, dove la fine della guerra contro lo Stato Islamico sembra più vicina rispetto alla Siria, il governo ha ricominciato ad aprire le scuole che fino a poco tempo fa si trovavano nei territori controllati dallo Stato Islamico: i prossimi passi saranno quelli di trovare degli insegnanti qualificati e del personale in grado di trattare con bambini radicalizzati e psicologicamente traumatizzati.