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  • Martedì 4 aprile 2017

In Sud Sudan va sempre peggio

Nel paese più giovane del mondo c'è una guerra civile da 50mila morti e milioni di profughi, che ha causato anche una grave carestia: e le organizzazioni umanitarie possono fare pochissimo

di Kevin Sieff - The Washington Post

Nyakuma Tap, a sinistra, e sua sorella Nyakuoth Kuol, la cui casa a Dablual, nella contea di Mayendit in Sud Sudan, è stata distrutta da un attacco compiuto da uomini armati a ottobre (Albert Gonzalez Farran/For The Washington Post)
Nyakuma Tap, a sinistra, e sua sorella Nyakuoth Kuol, la cui casa a Dablual, nella contea di Mayendit in Sud Sudan, è stata distrutta da un attacco compiuto da uomini armati a ottobre (Albert Gonzalez Farran/For The Washington Post)

Quando a gennaio il fratellastro è morto di fame, Matthew Yaw l’ha sepolto nella sabbia vicino alla baracca di bastoni e plastica della sua famiglia nella contea di Mayendit, in Sud Sudan, un’altra tomba al centro della peggiore crisi alimentare del mondo. È una catastrofe causata dall’uomo: non da una siccità o da inondazioni, ma da un violento conflitto che ha distrutto il sostentamento di contadini come Yaw, impedendo poi agli operatori umanitari di entrare nei paesi. La dichiarazione dell’ONU sulla carestia di febbraio avrebbe dovuto portare assistenza a questa contea nel nord del Sud Sudan. Nel giro di pochi giorni, però, il governo ha ordinato agli operatori umanitari di lasciare il paese prima di un’offensiva programmata, e in poco tempo la zona è stata consumata dai combattimenti. Yaw e i suoi vicini sono stati ridotti a mangiare le ninfee e un pesce che si trova occasionalmente in un fiume della zona. Negli ultimi giorni gli operatori che sono riusciti a visitare Mayendit hanno visto persone indebolite girare mezze nude. I loro vestiti erano stati bruciati durante l’ultimo attacco.

Al momento in Medio Oriente e in Africa ci sono quattro crisi alimentari, in quella che si sta rivelando la più grande catastrofe umanitaria dalla Seconda guerra mondiale, stando alle Nazioni Unite (ONU). In ognuno di questi paesi – Nigeria, Somalia, Yemen e Sud Sudan – agli operatori umanitari viene impedito di raggiungere i bisognosi, in alcuni casi dai ribelli e in altri dai soldati o da restrizioni burocratiche. In questi quattro paesi, 20 milioni di persone potrebbero morire di fame se non riceveranno aiuto velocemente, secondo le Nazioni Unite. «Quando ti danno cibo per un mese, e deve durare per tre, hai fame», ha raccontato Yaw, un uomo alto di 37 anni appoggiato a un bastone, la cui caviglia è stata frantumata da un proiettile l’anno scorso mentre fuggiva dai combattimenti.

Cinque anni fa si celebrava il Sud Sudan come il più giovane paese del mondo, alla fine di un processo di pace con il Sudan che era stato promosso dal governo americano. Nel 2013, però, iniziò uno scontro tra il presidente del paese e il suo vice, che in poco tempo è diventato un più ampio conflitto etnico. Sono state uccise 50mila persone. Oggi più del 40 per cento dei 12 milioni di abitanti del Sud Sudan si ritiene abbiano problemi ad alimentarsi correttamente. Le fazioni in guerra – soprattutto le truppe governative – hanno limitato gli aiuti umanitari in piccoli e grandi modi. Alcune azioni sembrano atti di violenza brutale, come quando l’estate scorsa alcuni soldati hanno rubato oltre 4.000 tonnellate di cibo da un magazzino di Giuba, la capitale del paese, che sarebbero state sufficienti a nutrire 220mila persone per un mese. Gli operatori umanitari temono che il governo stia negando intenzionalmente gli aiuti alla regioni che ritiene sostengano i ribelli. La settimana scorsa la vice-ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Michelle Sisson, ha detto che le azioni del governo «potrebbero essere tattiche intenzionali per fare morire di fame» queste persone.

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Oggi ci sono oltre 70 checkpoint su una strada lunga poco più di 640 chilometri che separa la capitale da Bentiu, un’importante città a nord di Mayendit, dove soldati e altri uomini armati chiedono soldi o cibo prima di permettere ai camion degli aiuti di proseguire. Secondo un conteggio delle Nazioni Unite le autorità sudsudanesi e i ribelli negano i permessi di decollo agli aerei che trasportano aiuti alimentari e medici o vietano l’accesso a intere città almeno 80 volte al mese. Le organizzazioni umanitarie sono rimaste scioccate quando recentemente hanno scoperto che il governo stava prendendo in considerazione di richiedere una licenza da 10mila dollari (circa 9300 euro) per ogni operatore umanitario nel paese.

I funzionari sudsudanesi sostengono che la linea del governo non sia ostacolare gli aiuti, ma che la difficile situazione economica del paese abbia portato alcuni soldati isolati ad avanzare richieste. «I singoli agenti potrebbero fermare un convoglio umanitario e molestare gli operatori. Questo però non rappresenta la visione del governo», ha detto Hussein Mar, il ministro degli Affari Umanitari sudsudanese, «in una situazione di guerra ci sono persone che si fanno giustizia da sole». I leader sudsudanesi di entrambe le fazioni del conflitto riconoscono raramente gli effetti delle loro restrizioni sugli operatori umanitari. «In un paese in cui è stata dichiarata una carestia per la prima volta in cinque anni il fatto che non si sentano i leader parlare più spesso dei problemi delle persone è una cosa incredibile», ha detto in un’intervista David Shearer, il principale funzionario dell’ONU in Sud Sudan.

Spesso gli operatori umanitari finiscono nel fuoco incrociato. Nel 2015 ci sono stati 31 attacchi contro gli operatori in Sud Sudan, più che in ogni altro paese del mondo, stando all’Aid Worker Security Database, gestito dal gruppo di ricerca Humanitarian Outcomes. I dati relativi al 2016 non sono stati ancora diffusi. Dall’inizio della guerra sono stati uccisi 79 operatori umanitari, sei di quali sono morti sabato 25 marzo in un’imboscata sulla strada che da Giuba porta a Pibor, nell’est del paese.

A Mayendit, una delle due zone ufficialmente colpite dalla carestia, l’ostacolo maggiore nel raggiungere gli abitanti che stanno morendo di fame sono stati i combattimenti quasi incessanti tra forze governative e ribelli. In alcuni casi, anche dopo il lancio di cibo dagli aerei dell’ONU, i soldati hanno saccheggiato i paesi rubando le provviste ai civili. Due settimane fa, in un pomeriggio rovente, un piccolo gruppo di funzionari dell’ONU è atterrato a Mayendit con un elicottero bianco, per cercare di capire cosa fosse possibile fare per migliorare l’accesso agli affamati. È stato un momento particolarmente teso. Otto operatori umanitari dell’organizzazione benefica del North Carolina Samaritan’s Purse erano stati trattenuti nella zona per un giorno dai ribelli poco tempo prima. Circolavano voci su un altro attacco in preparazione da parte delle forze governative. «Non possono comportarsi in questo modo e aspettarsi che gli operatori umanitari continuino ad arrivare», ha detto Joyce Luma, direttrice del Programma Alimentare Mondiale in Sud Sudan, che faceva parte del gruppo.

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Due donne e una bambina fuggite da Mayendit, a Ganyiel (Albert Gonzalez Farran/For The Washington Post)

Il gruppo delle Nazioni Unite è scomparso all’interno di un piccolo edificio fatiscente con i capi dei ribelli. Erano abituati a questo tipo di trattative: per praticamente ogni consegna di cibo, convoglio e visita ufficiale è necessaria una serie di permessi e suppliche a livello diplomatico. Una squadra del Programma Alimentare Mondiale tiene a portata di mano un telefono con decine di numeri di ribelli e comandanti del governo. In alcuni casi gli operatori umanitari sono riusciti a convincere i comandanti a ritardare degli attacchi durante la consegna delle sacche di cibo. In molti altri casi, però, non ce l’hanno fatta.

A Giuba gli operatori umanitari hanno raccontato in privato che il governo stava limitando l’assistenza per fare morire di fame le persone percepite come nemiche, tra cui donne e bambini in zone occupate dai ribelli, come Mayendit. Per paura che i loro tentativi vengano ulteriormente ostacolati, tuttavia, gli operatori sono restii a parlare in pubblico di queste strategie. «Quando il governo porta avanti una campagna contro i ribelli finiscono per trattare i civili come nemici», ha raccontato un importante funzionario di un’organizzazione umanitaria.

Ci sono voluti anni perché Mayendit finisse nell’attuale situazione di carestia, nei quali le violenze hanno devastato la contea, intaccando la capacità dei contadini e dei pastori locali di sostentarsi. I funzionari umanitari hanno segnalato diverse volte come la contea si stesse sgretolando. Senza una soluzione politica alla guerra, hanno detto, avrebbero dovuto precipitarsi dopo ogni scontro per evitare che delle persone morissero. La soluzione politica non è mai arrivata.

Gli operatori umanitari hanno guardato inermi il deterioramento della situazione. I dipendenti di un’organizzazione per lo sviluppo italiana, Intersos, hanno raccontato di come gli studenti e gli insegnanti nelle scuole dell’organizzazione fossero reclutati con la forza da gruppi armati di entrambe le fazioni. Con il tempo, mentre i combattenti distruggevano raccolti e rubavano capi di bestiame, nella regione ha iniziato a diffondersi la fame. Quando gli studenti hanno visto gli aerei degli aiuti sorvolare sopra di loro, preparandosi a lanciare sacche di sorgo o di mais, sono corsi fuori dalla classe cantando. Tra un lancio di aiuti e l’altro sono però passati lunghi periodi, non solo per via dei combattimenti ma anche perché le Nazioni Unite hanno i soldi per nutrire regolarmente solo una piccola parte dei sudsudanesi che hanno bisogno di aiuti. «I bambini hanno smesso di venire a scuola perché i loro genitori hanno detto loro di andare a cercare dei frutti», ha raccontato Herbert Mayemba, un funzionario sanitario di Intersos.
A febbraio a Mayendit e nella confinante contea di Leer è stato dichiarato lo stato di carestia, che significa che almeno il 30 per cento della popolazione è gravemente denutrito, e che su 10mila persone muoiono ogni giorno due adulti o quattro bambini. La mancanza di cibo non è l’unico problema: nella zona si è diffusa un’epidemia di colera per la carenza di acqua pulita e per la scarsa igiene. Diverse persone, poi, continuano a morire per via delle violenze, in particolare per le ferite da proiettile.

L’unico ospedale della regione, a Leer, è stato saccheggiato quattro volte in due anni. Sono stati rubati farmaci, attrezzature e carburante. L’anno scorso l’organizzazione internazionale Medici senza frontiere ha chiuso l’ospedale, inviando a Mayendit piccole squadre sanitarie con minori risorse. «Consideriamo Mayendit come un posto con un estremo bisogno d’aiuto, ma per noi lavorarci è troppo pericoloso», ha detto un funzionario di una delle organizzazioni che ha ritirato il proprio personale dalla contea, che ha chiesto di restare anonimo per paura che le sue dichiarazioni fossero viste come critiche al governo. Oggi anche le malattie più semplici non possono essere curate. Nel paese di Dablual una donna di 50anni chiamata Nyatuai Dem ha raccontato di avere la diarrea da oltre una settimana, dopo che si era nutrita solo di ninfee. Non aveva ricevuto nessun tipo di cura per la malattia, che può essere mortale. Come rimedio la sua famiglia le aveva stretto un pezzo di stoffa intorno allo pancia.
Migliaia di persone si sono riversate fuori dalla contea, camminando per giorni per raggiungere campi per gli sfollati come quello di Ganyiel. «Siamo venuti qui perché eravamo stanchi che ci venisse rubato il cibo», ha detto James Gawar, che ha 35 anni, «i nostri bambini erano malati. Avevamo bisogno di un posto dove trovare aiuto».

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Nyarier Niey, a destra, e suo genero James Gawar, al centro, sono ospitati da Simon Gadiet, a sinistra, a Ganyiel, dopo essere fuggiti da Mayendit (Albert Gonzalez Farran/For The Washington Post)

Il Sud Sudan sta subendo la crisi dei profughi in più rapida crescita al mondo, con 1,6 milioni di persone che sono scappate dal paese e quasi due milioni di sfollati interni. Matthew Yaw è uno di loro. Non può camminare senza sentire dolore, e non è sicuro che sopravviverebbe a un viaggio dalla sua casa a Dablual fino a un campo per gli sfollati. Dalla sua baracca riesce a vedere il terreno dove una volta coltivava il mais. Con il suo bastone ha indicato i campi in lontananza. «In passato riuscivamo a coltivarci il cibo. Non avevamo bisogno di aiuto», ha raccontato, «ora l’unica cosa che possiamo fare è aspettare le prossime donazioni».

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Ganyiel, dove centinaia di sudsudanesi provenienti dalle contee di Mayendit e Leer si rifugiano per scappare dalla carestia e dalle violenze (Albert Gonzalez Farran/For The Washington Post)

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