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  • Giovedì 2 marzo 2017

Il ministro della Giustizia americano fa un passo indietro

Jeff Sessions ha avuto contatti con la Russia in campagna elettorale e mentito al Congresso: per questo non supervisionerà l'inchiesta dell'FBI sull'ingerenza russa

Donald Trump con Jeff Sessions. (Win McNamee/Getty Images)
Donald Trump con Jeff Sessions. (Win McNamee/Getty Images)

Aggiornamento delle 23
Dopo una giornata di dure critiche e pressioni, il procuratore generale americano Jeff Sessions ha deciso di rinunciare a occuparsi personalmente e prendere decisioni in relazione all’indagine sulle interferenze russe nella campagna elettorale americana. Sessions ha annunciato la decisione dopo un incontro con i membri più anziani del ministero della Giustizia americano. Ha poi ribadito che le sue conversazioni con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak non hanno mai trattato della campagna presidenziale e che non voleva ingannare il Senato quando disse, durante le audizioni per confermare la sua nomina, di non aver avuto nessun contatto con i russi durante la campagna elettorale. Il presidente Donald Trump ha confermato il suo sostegno a Sessions, ha detto che non sapeva avesse parlato con l’ambasciatore russo ma che era certo non avesse mentito al Senato; ha anche aggiunto che Sessions non si sarebbe dovuto astenere dalla guida all’indagine. Ora le inchieste del dipartimento della Giustizia saranno supervisionate dal vice procuratore generale, ruolo al momento esercitato da Dana J. Boente che dovrebbe essere sostituito da Rod J. Rosenstein: un’audizione al Senato per visionare la sua nomina si terrà martedì prossimo.

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Jeff Sessions, ex senatore statunitense e oggi procuratore generale – cioè ministro della Giustizia – dell’amministrazione Trump, ha mentito al Congresso sui suoi incontri con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti durante la scorsa campagna elettorale. Lo sostiene il Washington Post sulla base di due fonti nel ministero della Giustizia statunitense, che non sono state smentite. Sessions lo scorso luglio avrebbe incontrato l’ambasciatore russo Sergey Kislyak nel suo ufficio e a settembre ci avrebbe parlato al telefono: all’epoca era già uno dei più influenti consulenti e sostenitori di Trump, indicato da moltissimi come importante membro del suo eventuale futuro governo, e le intrusioni russe nella campagna elettorale statunitense erano già un caso giornalistico, politico e giudiziario.

Durante le audizioni al Senato per confermare la sua nomina a procuratore generale, per due volte Sessions aveva detto di non aver avuto nessun contatto con i russi durante la campagna elettorale. L’ulteriore aggravante di questa storia è che il dipartimento della Giustizia che oggi Sessions dirige è il responsabile ultimo delle indagini sul ruolo della Russia in campagna elettorale e sui rapporti tra Trump, il suo staff e la Russia; il dipartimento supervisiona anche il lavoro dell’FBI, che da mesi indaga su questa storia. Sessions fin qui non ha deciso di astenersi dal prendere decisioni sul tema, ma stanno crescendo le pressioni perché lo faccia, anche dentro il Partito Repubblicano.

Il 10 gennaio il senatore Democratico Al Franken chiese a Jeff Sessions come si sarebbe comportato se avesse trovato prove che qualcuno affiliato con il comitato elettorale di Trump avesse comunicato col governo russo nel corso della campagna elettorale. Sessions rispose: «Non sono a conoscenza di attività di questo tipo. Anche io ho collaborato una volta o due con il comitato elettorale e non ho avuto comunicazioni con i russi». Sempre a gennaio il senatore Democratico Patrick Leahy gli rivolse questa domanda per iscritto: “Diversi consulenti e collaboratori di Trump hanno legami con la Russia. Lei è stato in contatto con qualcuno collegato in qualsiasi modo al governo russo durante la campagna elettorale o dopo le elezioni?”. Sessions rispose con una sola parola: “No”.

Sessions non ha smentito l’incontro e la telefonata con l’ambasciatore russo, ma ha diffuso un comunicato stampa in cui ha cercato di circoscrivere la questione: «Non ho mai incontrato funzionari russi per discutere della campagna elettorale». La sua portavoce, Sarah Isgur Flores, ha detto che quegli incontri avevano a che fare con la sua attività di senatore e membro della commissione del Senato per le Forze armate. Ma a Sessions era stato chiesto se avesse avuto contatti con i russi, senza specifiche, e nessun altro membro della commissione Forze armate ha detto di aver avuto contatti con i russi nel corso del 2016. Nancy Pelosi, leader dei Democratici alla Camera, ha detto che Sessions ha mentito sotto giuramento e quindi deve dimettersi. Lindsey Graham, senatore Repubblicano moderato, ha detto che serve un procuratore speciale e indipendente che si occupi di questa inchiesta al posto di Sessions.

Jeff Sessions, che ha 70 anni, è un senatore molto conservatore: la sua nomina a procuratore generale è stata complicata anche dalle accuse di aver fatto in passato diversi commenti razzisti. E la sua storia non è la prima a mettere insieme i collaboratori di Trump e la Russia, anzi; il generale Michael Flynn si è dovuto dimettere qualche settimana fa quando si è scoperto che aveva parlato di sanzioni con l’ambasciatore russo Kislyak e lo aveva nascosto al vicepresidente Pence e all’FBI; tre collaboratori di Trump con forti legami con la Russia hanno fatto arrivare alla Casa Bianca, tramite Flynn, una “proposta di pace” sull’Ucraina dai contenuti molto graditi alla Russia; l’FBI indaga da mesi sul ruolo della Russia nel favorire Trump in campagna elettorale, soprattutto con gli attacchi informatici contro il Partito Democratico.

Ascolta “S2E3. Trump e la Russia, come in un film di spie” su Spreaker.

L’ultima puntata del podcast di Francesco Costa, sulla “proposta di pace” sull’Ucraina inviata alla Casa Bianca.

E queste storie si sono arricchite nelle ultime ore di un altro capitolo, stavolta raccontato dal New York Times, secondo cui negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama alcuni funzionari dell’intelligence e della Casa Bianca avrebbero cercato di evitare che le indagini sulla Russia potessero essere insabbiate, facendo due cose contemporaneamente: da una parte sparpagliando e diffondendo molte informazioni sulle indagini tra varie agenzie del governo, così che fosse più semplice imbattercisi e più complicato nasconderle, dall’altra alzando i livelli di segretezza e riservatezza sulle informazioni più delicate, così che potessero avervi accesso solo pochissime persone.

Le informazioni di cui si parla erano state raccolte nei mesi precedenti dall’intelligence statunitense ma anche da quella britannica e olandese, che hanno raccontato episodi di incontri in Europa tra collaboratori di Donald Trump e funzionari del governo russo; in altri casi queste comunicazioni sono state intercettate, e alcune riguardano direttamente il Cremlino. La paura che queste informazioni potessero essere distrutte o coperte, o le loro fonti tradite ed esposte, e che davvero qualcuno nel comitato Trump avesse collaborato con la Russia, ha spinto i funzionari dell’amministrazione Obama a seguire due strade.

La prima è stata permettere che parte di quelle informazioni potesse essere vista – o la sua esistenza intuita, quantomeno – da più persone possibili dentro il governo, anche quelle prive di un “nulla osta sicurezza” di alto livello: per esempio facendo domande specifiche durante i briefing dell’FBI o le audizioni alla commissione Intelligence del Senato, sapendo che le risposte sarebbero state archiviate in documenti ufficiali e quindi sarebbero potute riemergere durante una successiva indagine; oppure mettendo per iscritto queste informazioni dentro rapporti e analisi a basso livello di riservatezza, così che potessero essere letti dai vari rami del governo e in certi casi anche dalle intelligence europee; oppure inviando questo materiale riservato ai deputati che chiedevano chiarimenti sulle indagini. Moltissimi dati del genere sono stati anche caricati su Intellipedia, un sistema wiki riservato usato dalle agenzie di intelligence americane per condividere informazioni.

La seconda strada, invece, è stata prendere le informazioni in assoluto più delicate e sensibili – i nomi delle fonti, le identità delle persone intercettate e tenute sotto controllo dall’FBI – e ridurre il già piccolo numero di persone che possono accedervi (pur sapendo che il presidente e i suoi principali collaboratori possono avervi comunque accesso). Il presidente Trump e la Casa Bianca hanno sempre negato di aver avuto contatti con la Russia durante la campagna elettorale, cosa ormai sostenuta da diversi grandi giornali americani sulla base di numerose fonti dentro l’intelligence statunitense.