• Mondo
  • Mercoledì 8 febbraio 2017

I giudici non sono convinti sul “muslim ban”

Nella prima udienza si sono dimostrati scettici verso gli argomenti del ministero della Giustizia, che sostiene il ricorso di Trump per ripristinare il divieto sull'immigrazione

Una manifestazione contro il "muslim ban" a Kalamazoo, Michigan, Stati Uniti (Jake Green/Kalamazoo Gazette-MLive Media Group via AP)
Una manifestazione contro il "muslim ban" a Kalamazoo, Michigan, Stati Uniti (Jake Green/Kalamazoo Gazette-MLive Media Group via AP)

Nel pomeriggio di ieri negli Stati Uniti (in Italia era notte) si è tenuta la prima importante udienza nel caso giudiziario sollevato da una corte federale che ha portato nei giorni scorsi alla sospensione del cosiddetto “muslim ban”, il provvedimento voluto con un ordine esecutivo dal presidente Donald Trump per limitare l’accesso nel paese ai cittadini di 7 stati a prevalenza musulmana, compresi i rifugiati siriani. August Flentje, del ministero della Giustizia, ha risposto per un’ora circa alle domande di tre giudici della corte d’appello del Ninth Circuit, attraverso un’udienza telefonica trasmessa in streaming e seguita da migliaia di persone, benché fosse spesso tecnica e complessa da comprendere per chi non è pratico di procedure giudiziarie.

L’obiettivo di Flentje era fare in modo che i giudici decidessero di sospendere la decisione del giudice federale James Robart della scorsa settimana, contro la quale Trump ha fatto ricorso. I tre giudici hanno però spiegato di volere approfondire il tema e che probabilmente si dovrà attendere la fine della settimana per una decisione. L’ordine esecutivo aveva determinato un bando all’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini provenienti da Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen per 90 giorni, con una sospensione a tempo indefinito per l’ingresso dei rifugiati siriani e di 120 giorni per tutti gli altri.

Parlando con i giudici, Flentje ha definito il “muslim ban” come una sorta di “pausa temporanea” nei confronti di chi arriva da paesi che costituiscono un particolare rischio per la sicurezza nazionale statunitense, definendo i 7 stati coinvolti come luoghi in cui “c’è una presenza significativa di terroristi”. Ha anche sostenuto che l’ordine esecutivo voluto da Trump è “chiaramente costituzionale” e ha l’obiettivo di tutelare i cittadini statunitensi. Flentje ha poi contestato la decisione del giudice federale della scorsa settimana, definendola eccessivamente generica e auspicando che ne sia ridotta la portata.

Sentite queste dichiarazioni uno dei tre giudici, Michelle Friedland, ha chiesto a Flentje se volesse intendere che le decisioni del presidente su temi di questo tipo non possano essere riviste da altri organi dello stato. Dopo una breve pausa, Flentje ha risposto che “sì”, ci sono “chiaramente dei limiti costituzionali”, implicando che su alcune materie deve essere il presidente a decidere e basta. I giudici hanno quindi contestato la risposta, ricordando che i cittadini provenienti dai 7 stati erano già sottoposti a controlli molto severi e scrupolosi prima di essere accolti negli Stati Uniti, chiedendo quindi quale potesse essere lo scopo del nuovo ordine esecutivo. Flentje ha risposto ricordando che quei paesi rientrano in una lista di stati considerati pericolosi dal Congresso, ma anche questa risposta non ha convinto molti i giudici, con uno di loro – Richard Clifton – che l’ha definita “alquanto astratta”.

In più occasioni lo stesso Flentje non è sembrato molto convinto dalle tesi che doveva sostenere davanti ai giudici, né dagli esempi portati per persuaderli. In un passaggio dell’udienza ha parlato genericamente di alcune persone dalla Somalia entrate negli Stati Uniti, e in seguito accusate di essere legate al gruppo islamista al-Shabaab. I giudici hanno chiesto più dettagli, chiedendo se intendesse allegare del materiale sul tema per il caso giudiziario, ma Flentje ha chiesto di soprassedere. L’avvocato del ministero della Giustizia ha inoltre ammesso che in alcuni passaggi l’ordine esecutivo di Trump è “problematico”.

I rappresentanti legali degli stati di Washington e Minnesota, che hanno vinto la causa in primo grado per ottenere la sospensione del “muslim ban” la settimana scorsa, hanno chiesto ai tre giudici di appello di valutare anche le dichiarazioni fatte da Donald Trump durante la campagna elettorale, con ricorrenti annunci sulla volontà di bloccare l’accesso agli Stati Uniti per i musulmani. Flentje ha contestato le domande di questo tipo, dicendo che non ci si può basare su alcuni articoli di giornale e dichiarazioni ai comizi per determinare la validità di un ordine esecutivo. I giudici non sono sembrati molto convinti da questa risposta.

Nei prossimi giorni i tre giudici di appello proseguiranno con le loro valutazioni in vista di una sentenza, che potrebbe dare ragione a Trump o ai sostenitori della causa di primo grado che ha portato alla sospensione. In entrambi i casi, una delle due parti avrà comunque la possibilità di fare ricorso presso la Corte Suprema degli Stati Uniti. Attualmente i giudici supremi sono 8, perché il nono (Neil Gorusch) è stato nominato da poco e deve essere ancora confermato dal Senato: 4 di orientamento conservatore e 4 democratico. Nel caso di un giudizio con 4 a favore e 4 contro, resterebbe in vigore la decisione dei giudici di appello, che si dovranno esprimere nei prossimi giorni. Nel caso di una sentenza di appello che conferma la sospensione e di un 4 a 4 alla Corte Suprema, c’è quindi la possibilità che la vicenda legale si trascini per ulteriori mesi, complicando i piani dell’amministrazione Trump.