Come è andata a finire con le province

Che ci sono ancora e saranno rinnovate domenica prossima: è un effetto della bocciatura al referendum della riforma costituzionale, ma non solo

La manifestazione di protesta dei precari della Provincia di Torino davanti alla sala del Consiglio Provinciale in Piazza Castello, Torino, 9 gennaio 2015 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
La manifestazione di protesta dei precari della Provincia di Torino davanti alla sala del Consiglio Provinciale in Piazza Castello, Torino, 9 gennaio 2015 (ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)

Domenica prossima, 8 gennaio, 38 province andranno al voto per rinnovare i rispettivi consigli: in 16 casi si eleggeranno anche i nuovi presidenti. Altri 6 consigli provinciali saranno votati tra il 9 e il 29 gennaio mentre in altre 27 province si è votato già tra settembre e dicembre.

Malgrado una certa semplificazione giornalistica, la riforma delle province convertita in legge nell’aprile del 2014 dalla Camera non ha previsto un’abolizione totale delle province, ma una sostituzione con nuovi enti che hanno continuato a occuparsi di edilizia scolastica, tutela e valorizzazione dell’ambiente, trasporti, strade provinciali e per i quali (a differenza di prima) non sono più previste elezioni dirette. Per l’abolizione totale delle province sarebbe stata necessaria una modifica della Costituzione, ma solo come primo passaggio formale. La riforma costituzionale bocciata con il referendum del 4 dicembre prevedeva semplicemente di eliminare la parola “province” dalla Costituzione, rimandando poi a una futura legge ordinaria la determinazione delle funzioni e delle competenze di questi enti o la loro eventuale cancellazione (una nuova riforma dunque, che sostituisse la riforma Delrio). In tutti questi passaggi la situazione è rimasta piuttosto confusa, e complicata.

Com’è andata e come funziona
Nell’aprile del 2014 la Camera convertì in legge il cosiddetto “Disegno di legge Delrio” sulla riforma delle province, approvato dal Senato con qualche difficoltà un mese prima. La legge prevedeva una riformulazione delle province trasformate in enti di secondo livello, per i quali non sono cioè più previste elezioni dirette.

Le province sono state sostituite da assemblee formate dai sindaci dei Comuni che fanno parte della provincia e da un presidente: è previsto anche un terzo organo, il consiglio provinciale, formato dal presidente della provincia e da un gruppo di 10-16 membri – in base al numero degli abitanti della provincia – eletti tra gli amministratori dei comuni interessati.

Il presidente della provincia – che convoca e presiede il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci – è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni della provincia e resta in carica quattro anni, a meno che nel frattempo non cessi la sua carica di sindaco (in quel caso è prevista la decadenza automatica da presidente, e nuove elezioni). Il consiglio provinciale è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia e resta in carica due anni; anche in questo caso è prevista la decadenza dalla carica nel caso in cui il membro del consiglio cessi dalla sua carica di amministratore. Per il presidente della provincia e per i membri del consiglio provinciale e dell’assemblea dei sindaci non è previsto compenso.

I nuovi enti hanno competenza in materie come edilizia scolastica, tutela e valorizzazione dell’ambiente, trasporti, strade provinciali. Un’altra funzione è il “controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale” e la “promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale”. Tutte le altre competenze sarebbero dovute passare ai Comuni, ma le cose sono andate a rilento e di fatto le competenze delle province sono rimaste molto simili a quelle prima della riforma.

Con la riforma Delrio le province sono “scese” da 107 a 97. In realtà le dieci rimanenti non sono state eliminate, ma trasformate in altrettante città metropolitane, organismi sempre di secondo livello, i cui territori coincidono con quelli delle province e che, di fatto, hanno le funzioni fondamentali delle vecchie. Le “città metropolitane” sono: Torino, Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. La riforma costituzionale, non approvata dal referendum del 4 dicembre, prevedeva di eliminare la parola “province” dall’articolo 114 della Costituzione rimandando a una nuova legge ordinaria il riordino sostanziale e non solo formale di questi enti.

Il problema
Una cosa che ha accompagnato la trasformazione formale delle province prevista dalla riforma Delrio è il taglio dei finanziamenti di questi stessi enti. I tagli ai fondi sono arrivati però molto prima del “riordino” deciso dal governo e questo ha causato diversi problemi.

(Le province sono nei guai?)

Spiega il Corriere della Sera:

«Nel sistema delle Province i tagli sono stati draconiani (circa due miliardi in due anni), con 20 mila dipendenti in meno su 48 mila totali, ma le competenze rimangono sempre le stesse: la manutenzione di 135 mila chilometri di strade (la «nervatura carrozzabile» del Paese) e la gestione di 6 mila scuole.

Nell’ultima legge di Stabilità è stato evitato in extremis un ulteriore taglio previsto nel 2014 (un miliardo che avrebbe mandato definitivamente a gambe all’aria i bilanci) ma poi il passaggio frettoloso della legge al Senato e la crisi di governo hanno stoppato l’iniezione di risorse fresche (500 milioni) senza le quali non si mettono toppe sull’asfalto e sui tetti delle scuole».

Achille Variati, sindaco di Vicenza e presidente dell’Unione delle Province d’Italia (Upi, l’associazione che rappresenta tutte le province italiane, escluse le province autonome di Trento, Bolzano e Aosta), ha spiegato che si rischia «di arrivare al paradosso di enti saldi dal punto di vista della governance istituzionale, ma in default finanziario a causa dei tagli insostenibili delle manovre economiche: allo stato attuale nessuna provincia è infatti in grado di approvare i bilanci, e la legge di bilancio licenziata in fretta dal Parlamento ha lasciato irrisolto questo grave problema». Variati pensa che serva «subito un decreto legge che risolva questa vera e propria emergenza, mettendo in sicurezza i bilanci e consentendo alle province di continuare ad erogare quei servizi essenziali, a partire dalla gestione alla messa in sicurezza di strade, scuole superiori e ambiente, che noi sindaci consideriamo diritti ineludibili delle nostre comunità».

Le elezioni
Quelle dei prossimi giorni saranno le seconde elezioni che coinvolgeranno le province: le prime, dopo la riforma, si sono svolte nell’ottobre del 2014. Non se ne sta parlando molto e proprio per questo è difficile farne una ricostruzione accurata.

L’Upi ha pubblicato sul suo sito qualche dato: si dice che in tutto le elezioni già svolte e quelle che si terranno tra domenica prossima e la fine di gennaio porteranno al rinnovo degli organi di 71 su 76 delle nuove province: saranno eletti 842 consiglieri provinciali e 16 presidenti.

Nelle cinque province rimaste ci sono state elezioni nel 2015. Il maggior numero di votazioni si terrà l’8 gennaio, quando saranno eletti 38 nuovi consigli provinciali: altri cinque saranno rinnovati tra il 9 e l’11 gennaio, uno il 29 gennaio, mentre in 27 province si è già votato tra settembre e dicembre. Nelle province nelle quali si è già votato l’affluenza è stata alta, con una media del 78 per cento.

Tra le province interessate dal voto dell’8 gennaio ci sono: Ancona, Ascoli Piceno, Belluno, Brescia, Brindisi, Chieti, Como, Foggia, Forlì-Cesena, Frosinone, Grosseto, Isernia, La Spezia, Latina, Lecce, Lecco, Livorno, Monza-Brianza, Novara, Padova, Perugia, Pesaro-Urbino, Pescara, Pisa, Pistoia, Prato, Rieti, Rovigo, Salerno, Savona, Siena, Taranto, Teramo, Terni, Verbano Cusio Ossola, Verona e Vicenza.