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  • Martedì 22 novembre 2016

Le Olimpiadi di Pechino e Londra non sono come le ricordiamo

Quasi un centinaio di atleti sono stati trovati positivi nei nuovi controlli antidoping e molte medaglie verranno riassegnate

Una medaglia d'oro di Londra 2012 (Getty Images)
Una medaglia d'oro di Londra 2012 (Getty Images)

Dai controlli antidoping effettuati negli ultimi mesi sui campioni conservati dalla WADA, l’agenzia antidoping mondiale, e prelevati agli atleti durante le Olimpiadi di Pechino 2008 e Londra 2012, sono stati trovati circa un centinaio di nuovi casi di positività a sostanze dopanti che nei precedenti controlli non erano state rilevate. La maggior parte degli atleti risultati positivi proviene dall’est Europa, e quaranta di loro hanno vinto una medaglia olimpica nel corso delle due manifestazioni: solo nella giornata di ieri ne sono state riassegnate sette. Molti giornali sostengono che questi numeri siano destinati a crescere ancora, in quanto sono previsti altri controlli antidoping nelle prossime settimane. Il gran numero di positività ha avuto effetti sia sul medagliere di Pechino 2008 che su quello di Londra 2012, e le medaglie assegnate e poi tolte agli atleti dopati sono state e verranno riassegnate ad altri, anche oggi, a distanza di diversi anni. Dopo le ultime notizie sui test antidoping, Gian-Franco Kasper, dirigente sportivo svizzero e membro del comitato esecutivo del Comitato Olimpico Internazionale, ha detto alla stampa: “Questi numeri sono semplicemente impossibili, incredibili”.

Lo scorso maggio, appena sette mesi dopo la pubblicazione dell’indagine della WADA sull’uso sistematico di sostanze dopanti fra gli atleti russi, che portò all’esclusione temporanea della Russia da tutte le gare ufficiali e alla chiusura dei laboratori antidoping russi, vennero fuori altre accuse, ancora più gravi delle precedenti, nei confronti della Russia e riguardanti le Olimpiadi invernali di Sochi del 2014. Le accuse furono poi confermate dall’inchiesta della WADA, che scoprì uno dei sistemi più elaborati mai creati per l’elusione di controlli antidoping. Nelle settimane successive il CIO e la WADA, oltre a limitare la partecipazione degli atleti russi alle Olimpiadi di Rio de Janeiro e a squalificarne molti, hanno iniziato una serie di controlli su centinaia di campioni antidoping risalenti al 2008 e al 2012, che hanno portato alle squalifiche di cui si parla ora.

I primi importanti risultati sui riesami dei campioni antidoping sono stati resi noti dal CIO a luglio, quando è stata comunicata la positività di quarantacinque atleti che parteciparono alle Olimpiadi di Londra 2012 e di Pechino 2008: nello specifico, trenta provenivano dai campioni raccolti durante le Olimpiadi del 2008 e quindici da quelle del 2012. Fra i quarantacinque primi casi di positività, ventitré riguardavano atleti che avevano vinto almeno una medaglia, mentre fra gli atleti a cui ieri è stata tolta una medaglia ci sono la russa Yuliya Zaripova, oro nei 3000 siepi a Londra, Nataliya Zabolotnaya e Alexandr Ivanov, medaglie di argento nel sollevamento pesi, e i moldavi Cristina Iovu e Anatoli Ciricu, vincitori di due bronzi sempre nel sollevamento pesi.

Solitamente le sostanze dopanti non vengono trovate nei controlli effettuati durante le manifestazioni perché i metodi usati dai laboratori sono più indietro rispetto alla scienza che sviluppa le sostanze vietate. Nei casi del 2008 e del 2012, per esempio, i laboratori non erano ancora in grado di rilevare la presenza di alcune sostanze dopanti presenti nei campioni solo in piccole dosi. Per lo stesso motivo è difficile che nel corso di una Olimpiade vengano trovati più di una decina di casi di positività. Solo quando i sistemi usati dai laboratori antidoping si evolvono vengono trovate le nuove sostanze. L’evoluzione dei metodi è costante e quindi la pratica del riesame dei campioni di sangue è ormai consuetudine.

In seguito all’elevato numero di squalifiche e la conseguente riassegnazione di decine di medaglie olimpiche, negli ambienti dell’atletica leggera internazionale si è tornati a parlare con insistenza della credibilità delle stesse gare olimpiche e del danno arrecato agli atleti “puliti” che si sono piazzati dietro quelli dopati. Il New York Times, in un articolo di qualche giorno fa, ha parlato di quello che è successo a Chaunté Lowe, saltatrice americana che nella sua carriera ha partecipato a quattro Olimpiadi estive, senza mai vincere una medaglia. Agli inizi di novembre Lowe si trovava nella sua abitazione quando ha ricevuto un messaggio su Facebook da parte di un’atleta tedesca contro cui gareggiò alle Olimpiadi di Pechino 2008, che le ha scritto: “Congratulazioni, medaglia di bronzo”.

In quei giorni il CIO aveva comunicato ufficialmente la squalifica per positività al doping delle atlete russe Anna Chicherova e Yelena Slesarenko e dell’ucraina Vita Palamar, che si erano piazzate davanti a Lowe nella gara del salto in alto femminile. Le tre atlete sono state escluse di recente dal tabellone finale della gara di salto in alto e di conseguenza Lowe è salita al terzo posto, ottenendo così la medaglia di bronzo otto anni dopo la conclusione della gara. Lowe all’epoca era considerata un’atleta molto promettente ma gli sponsor cominciarono a non interessarsi a lei a causa dei suoi risultati non così soddisfacenti. Nei mesi successivi il marito di Lowe venne licenziato e l’abitazione della coppia fu pignorata a causa dei mancati pagamenti del mutuo. Dopo aver ottenuto la medaglia di bronzo per una gara di otto anni fa, Lowe ha detto che se l’avesse ricevuta all’epoca, la sua vita probabilmente sarebbe stata molto diversa da com’è ora.

Il CIO solitamente comunica alle federazioni nazionali di ciascuna disciplina di procedere alla riassegnazione delle medaglie, ma da tempo si parla di introdurre delle sanzioni economiche alle federazioni i cui atleti vengono trovati positivi al doping, da girare poi come risarcimento a chi riceve la medaglia con mesi o anni di ritardo. Finora però nulla di concreto è stato fatto e le varie associazioni di atleti professionisti continuano a chiedere al CIO di pensare a un modo per risarcire gli atleti danneggiati.