renzi-referendum

Tutto sul referendum costituzionale

Diciamo tutti di stare "sul merito" e smetterla coi litigi dell'asilo: eccolo, il merito, spiegato bene

Il prossimo 4 dicembre in Italia si vota per un referendum con cui gli elettori potranno decidere se approvare o respingere la riforma della Costituzione approvata dal Parlamento e proposta dal governo Renzi. Non è previsto un quorum, quindi il risultato del referendum sarà valido indipendentemente da quante persone andranno a votare. Se la maggioranza voterà Sì, la riforma sarà approvata. Se la maggioranza voterà No, sarà respinta. La riforma costituzionale in questione è una delle più elaborate ed ambiziose che siano mai state proposte in Italia e modifica 47 articoli su 139: abbiamo messo insieme una breve guida per capire che cosa cambierà con la riforma e su quali punti si discute di più.

Cosa propone

Riforma del Senato
È la parte più importante di tutta la riforma: prevede una riduzione dei poteri del Senato e un grosso cambiamento nel metodo di elezione dei senatori. La riforma porrà fine al cosiddetto “bicameralismo paritario” (o “perfetto”), cioè la forma parlamentare in cui le due Camere hanno sostanzialmente uguali poteri e uguali funzioni: un sistema che non ha nessun altro paese in Europa. La riforma non elimina dunque il Senato, ma lo modifica. Il nuovo Senato, ad esempio, non darà la fiducia al governo, che quindi per insediarsi e operare avrà bisogno soltanto del voto di fiducia della Camera.

Molte leggi rimarranno “bicamerali” come ora. Ma con il nuovo Senato il procedimento legislativo bicamerale, identico a quello attuale, non riguarderà più tutte le leggi ma solo alcune. Il Senato manterrà la sua “competenza legislativa” – cioè la possibilità di approvare, abrogare o modificare leggi – soltanto in un numero limitato di ambiti: riforme costituzionali, disposizioni sulla tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali, «raccordo tra Stato, enti costitutivi della Repubblica e Unione Europea», valutazione delle «politiche pubbliche», verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato, tra le altre. L’elenco è piuttosto generico e alcuni critici hanno fatto notare che non è chiaro che cosa accadrebbe in presenza di “leggi miste”, in cui cioè siano presenti norme relative ad alcune delle materie di competenza bicamerale. Ad esempio, la legge elettorale della Camera non rientra nell’elenco delle materie di competenza del Senato, ma al suo interno sono previste disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche che rientrano invece in quelle competenze.

Per tutte le altre leggi che non rientrano nell’elenco è comunque prevista la possibilità che il Senato intervenga per riesaminare il testo (entro dieci giorni) se ne farà richiesta proponendo nei successivi trenta giorni eventuali modifiche. La riforma introduce anche, per alcune specifiche leggi come ad esempio le leggi di bilancio, ulteriori procedimenti legislativi.

Il nuovo Senato sarà composto da 100 senatori: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e altri 5 saranno di nomina presidenziale. I nuovi senatori non saranno più eletti direttamente dai cittadini, ma i sindaci e i consiglieri regionali saranno scelti dai Consigli regionali con metodo proporzionale. Qui c’è un calcolo di quanti senatori verranno assegnati a ciascuna regione se venisse approvato il referendum.

La durata del mandato come senatori coincide con quella delle istituzioni territoriali dalle quali sono stati eletti, ad esempio dai Consigli regionali, che hanno scadenze differenti tra loro (nel 2015 ci sono state le elezioni in Campania, Veneto, Puglia e altre regioni; nel 2014 in Sardegna, Piemonte, Emilia Romagna e Calabria; nel 2013 in Lombardia, Lazio, Molise e in data diversa in Basilicata; nel 2012 in Sicilia). I sindaci potrebbero essere eletti anche in scadenza di mandato. La composizione del nuovo Senato non sarà dunque fissa. Per i nuovi senatori è prevista l’immunità, ma solo nell’esercizio delle funzioni parlamentari e non invece in quella di consiglieri regionali o di sindaci. I critici della riforma hanno fatto notare come non sarà facile fare questa distinzione.


Riforma del Titolo V
La seconda parte più importante della riforma riguarda la riduzione dell’autonomia delle regioni a favore dello stato centrale. Questa riduzione si otterrà con la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che contiene le norme fondamentali che regolano le autonomie locali.

Il Titolo V era già stato modificato con la riforma Costituzionale del 2001, quando alle regioni fu garantita autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). Nel 2001 venne previsto un elenco di materie su cui era competente esclusivamente lo stato e un elenco con la cosiddetta “potestà legislativa concorrente” nell’ambito della quale e in alcuni settori lo Stato si occupava della legge più generale e le regioni delle norme specifiche. Tutto ciò che non rientrava e non veniva nominato esplicitamente nei due elenchi era di competenza delle regioni. La complicata definizione e interpretazione di quegli elenchi ha portato a una forte conflittualità tra Stato e regioni su cui, dal 2001 ad oggi, la Corte Costituzionale è intervenuta più volte creando intorno alla definizione precisa degli ambiti di competenza una giurisprudenza.

Con il ddl Boschi la potestà legislativa concorrente sarà eliminata e sostituita con un elenco con le competenze esclusive delle Regioni. I due elenchi di materie del 2001 (quello che indicava le materie esclusive dello Stato e quello che indicava le materie concorrenti) saranno dunque sostituiti con due nuovi elenchi: quello con le competenze esclusive dello Stato e quello con le competenze esclusive delle regioni. I critici della riforma sostengono che la conflittualità sulle materie, diminuita negli ultimi anni dopo gli interventi della Corte Costituzionale e la creazione di una “giurisprudenza” sulla definizione precisa degli ambiti di competenza, potrebbe tornare a crescere per la necessità di ridefinire le materie contenute nei due nuovi elenchi.

La competenza principale che rimane alle regioni sarà la sanità. Nella riforma sono anche contenute clausole che permettono allo stato centrale di occuparsi di questioni esclusivamente regionali, nel caso lo richieda la tutela dell’interesse nazionale. Da questa clausola sono escluse le regioni a statuto speciale. La riforma porterà anche all’abolizione formale delle province, che negli ultimi anni sono già state progressivamente svuotate delle loro principali funzioni.



Elezioni del presidente della Repubblica, abolizione del CNEL e referendum
La riforma prevede anche una serie di cambiamenti di portata meno rilevante, ma comunque importanti.

Il presidente della Repubblica sarà eletto dalle due camere riunite in seduta comune, senza la partecipazione dei 58 delegati regionali come invece avviene oggi. Sarà necessaria la maggioranza dei due terzi fino al quarto scrutinio: dalla quarta alla settima votazione saranno necessari i tre quinti e dalla settima in poi i tre quinti dei presenti (non del totale, quindi). Attualmente è necessario ottenere i due terzi dei voti fino al terzo scrutinio; dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta: Napolitano e Mattarella sono stati eletti così. Di conseguenza, la riforma dovrebbe garantire un’elezione più condivisa (sempre che ad esempio le opposizioni non decidano di lasciare l’aula, per qualche motivo: a quel punto la maggioranza potrebbe eleggersi un presidente praticamente da sola).

La riforma prevede anche l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, un organo previsto dalla Costituzione (all’articolo 99). Il CNEL è un “organo consultivo”, con la facoltà di promuovere disegni di legge (quasi mai usata nella sua storia).

L’attuale Costituzione prevede un solo referendum sulle leggi, quello abrogativo, che cioè chiede di cancellare leggi già approvate. Si basa su due parametri: raccolta di 500 mila firme e superamento del quorum per l’approvazione che è fissato al 50 per cento più uno. La riforma Boschi mantiene il limite delle 500 mila firme per la proposta di un referendum dando l’eventualità a chi ne raccoglie 800 mila di non doversi misurare con il quorum tradizionale ma con un quorum calcolato sulla base dei votanti delle elezioni politiche precedenti. Infine, la riforma lascia aperta la possibilità di introdurre referendum propositivi, cioè per proporre nuove leggi (oggi invece i referendum possono solo confermare o abrogare leggi già approvate). La riforma non li introduce, ma rinvia a una legge costituzionale la loro possibile introduzione.

Perché se ne discute
Il “combinato disposto”
Uno degli elementi più controversi della riforma è il risultato del famoso “combinato disposto“, ossia degli effetti combinati della riforma del Senato e della legge elettorale “Italicum” che, grazie al meccanismo del ballottaggio, assicura al partito che vince l’elezione una netta maggioranza alla Camera, indipendentemente da quanti consensi ha ottenuto al primo turno. Secondo i critici quindi, unendo la riforma alla legge elettorale (il famoso “combinato disposto”) si rischia di creare una Camera molto forte dominata da un partito di maggioranza che ha un numero di seggi del tutto sproporzionato rispetto al consenso ottenuto alle elezioni.

È per questo motivo che i critici del governo hanno parlato del rischio di una “deriva autoritaria”: Gustavo Zagrebelsky, stimato costituzionalista e sostenitore del No, ha spiegato ad esempio che la riforma rischia di produrre un sistema “oligarchico”. Nel corso di un confronto televisivo proprio con Zagrebelsky, Renzi ha replicato spiegando che «l’autoritarismo è dove si mettono in galera i giornalisti» e che gli oppositori del governo hanno usato toni eccessivi.

La risposta prevalente alla critica è che in Europa ci sono altri sistemi elettorali che producono risultati simili (ossia partiti che ottengono la maggioranza dei seggi pur avendo consensi molto inferiori al 50 per cento). L’esempio che si fa di solito è quello del Regno Unito, dove nel maggio del 2015 il partito conservatore di David Cameron ha ottenuto la maggioranza dei seggi col 36,9 per cento dei voti. Si tratta però di un sistema considerato spesso poco democratico, perché trascura i voti dei partiti più piccoli. Lo UKIP, per esempio, ha ottenuto più del 12 per cento dei voti alle ultime elezioni ma per via del sistema maggioritario ha conquistato un unico seggio.

Quesito
Il quesito che si troverà sulla scheda è pubblico da alcune settimane. È relativamente semplice e chiede se si è favorevoli alle “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V”. Qui abbiamo spiegato il quesito frase per frase. I critici del governo l’hanno definito “uno spot per il Sì”, definendolo anche eccessivamente generico. Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana hanno presentato un esposto al TAR del Lazio spiegando che a loro dire il quesito è illegittimo. Il quesito è stato comunque approvato dalla Corte di Cassazione in agosto, e si basa sul titolo della legge oggetto del referendum.

La riduzione dei costi della politica
Un altro tema piuttosto controverso è quello dei risparmi ai costi della politica che la riforma potrebbe produrre. La ministra per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi e Matteo Renzi hanno parlato in diverse occasioni di un risparmio totale di circa 500 milioni di euro. Questa cifra verrebbe in gran parte – circa 300 milioni di euro – dall’abolizione delle province; tra i 60 e gli 80 milioni arriverebbero dalla riforma del Senato; altri 20 circa dovrebbero essere frutto dell’abolizione del CNEL. La riforma porterà a una riduzione dei costi, ma l’esatta dimensione dei risparmi è stata molto contestata.

Roberto Perotti, ex commissario alla spending review e professore dell’Università Bocconi, ha scritto che i risparmi dovuti all’abolizione delle province sono già stati conteggiati negli scorsi anni. Le province, infatti, sono state svuotate di gran parte dei loro costi e la riforma si limiterà ad abolirle anche formalmente, cancellandole dalla Costituzione. I dati della Ragioneria Generale dello Stato dice che il risparmio derivante dalla riforma del Senato sarà intorno ai 50 milioni di euro.

La personalizzazione
In molti, anche fra i sostenitori del governo, hanno fatto notare che la campagna elettorale per il Sì ha impostato dall’inizio il voto come un giudizio politico sul governo Renzi e non sulla riforma. È una presa di posizione legittima, ma che da molti è stata considerata strategicamente fallimentare: il tasso di popolarità di Renzi negli ultimi mesi è in calo e il Partito Democratico non è uscito bene dalle elezioni amministrative di giugno.

All’inizio della campagna Renzi ha detto più volte che in caso di vittoria del No avrebbe smesso di fare politica, lasciando intendere che si sarebbe dimesso da presidente del Consiglio e che forse a quel punto si sarebbero tenute nuove elezioni. Da qualche tempo ha smesso di ripeterlo e anzi, ha aggiunto che in caso di vittoria del No deciderà il presidente della Repubblica se interrompere o meno la legislatura.

Altri rispondono a questa critica spiegando che se Renzi non fosse stato il primo a farlo, sarebbero stati i principali partiti politici di opposizione a descriverlo come un voto a favore o contro Renzi. Ad ogni modo, sembra che quasi tutti abbiano accettato che il voto avrà conseguenze politiche: anche Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e fra i leader del Movimento 5 Stelle, ha detto che in caso di vittoria del No bisognerebbe tenere nuove elezioni.

Chi vota cosa
Solamente uno fra i principali partiti italiani ha come posizione ufficiale il voto per il Sì: è il Partito Democratico, che però al suo interno ha una minoranza che salvo poche eccezioni ha votato in Parlamento sia la riforma che la legge elettorale, ma ha detto che voterà No a meno di modifiche rilevanti alla nuova legge elettorale. Nell’ultima direzione del partito si è deciso che “minoranza” e “maggioranza” del partito lavoreranno assieme per modificare la legge elettorale, ma non è chiaro se questo sarà sufficiente a convincere gli esponenti della minoranza a votare Sì (Massimo D’Alema, storico leader del centrosinistra e tuttora iscritto al PD, questa estate ha persino fatto un tour di comizi per sostenere il No). Stanno facendo campagna per il Sì anche i componenti di Area Popolare, il gruppo politico parlamentare che comprende deputati e senatori del Nuovo Centrodestra e dell’UDC.

Il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord, Sinistra Italiana – il nuovo raggruppamento dei partiti che stanno alla sinistra del PD – stanno facendo campagna per il No, unendo la contrarietà alla riforma e quella al governo Renzi. Possibile, il partito di Pippo Civati, sta facendo campagna per il No spiegando di opporsi per ragioni di merito. La posizione ufficiale di Forza Italia è per il No, anche se la riforma è praticamente la stessa che era nata dal famoso “patto del Nazareno” fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Da qualche tempo è attivo un comitato politico per il Sì a cui hanno aderito molti ex parlamentari di Forza Italia.

Che cosa dicono i sondaggi?
Secondo la gran parte dei sondaggi pubblicati negli ultimi 30 giorni, cioè a cavallo dell’inizio della campagna referendaria, il “No” al momento è in leggero vantaggio. Il sito Termometro Politico, che ha aggregato i sondaggi delle principali società demoscopiche italiane realizzati negli ultimi 30 giorni, riporta che su 11 sondaggi, 8 danno in vantaggio il No e soltanto 3 danno in vantaggio il “sì”. Si tratta di numeri che vanno presi con cautela e molto può ancora cambiare nei prossimi due mesi. La tendenza dei sondaggi, comunque, mostra che i No sono in crescita costante dall’inizio dell’anno.

Continua sul Post