La vita del critico gastronomico del New York Times

Pete Wells mangia fuori cinque volte a settimana, provando ogni volta a non farsi riconoscere e a usare con responsabilità il suo enorme potere

(dal film “Ratatouille”)
(dal film “Ratatouille”)

Sull’ultimo numero del New Yorker il giornalista Ian Parker ha scritto un lungo profilo di Pete Wells, il critico gastronomico del New York Times, raccontando come lavora e cosa voglia dire scrivere una volta a settimana di un ristorante diverso di una città come New York, sapendo di avere il potere di renderlo celebre o mandarlo in rovina con una solo recensione. Da quando è restaurant critic del New York Times, e cioè dal 2012, Wells non fa una vita normale: per molti aspetti, il suo non è il lavoro-dei-sogni che ci si può immaginare.

Cosa fa Wells cinque volte a settimana
Il New York Times pubblica due rubriche sui ristoranti della città: quella di Wells, la più letta e dedicata ai ristoranti più importanti, e poi “Hungry City”, curata da Ligaya Mishan e incentrata sui ristoranti più economici. Quella di Wells viene pubblicata una volta a settimana, e prevede per ogni ristorante un punteggio in stelle, da una a quattro, e una recensione del ristorante. Una stella significa “buono”, due “molto buono”, tre “eccellente”, quattro “straordinario”. Un ristorante può anche non ricevere nessuna stella ed essere invece valutato con un aggettivo tra “scarso”, “normale” o “soddisfacente”. Trovare online una foto di Wells è molto facile, nonostante per lui sarebbe meglio di no: non dovrebbe essere riconosciuto quando va al ristorante, anche se succede spesso.

Su Twitter ha come immagine profilo una foto di Statler, uno dei due vecchietti dei Muppets che criticano continuamente gli altri personaggi. Mangia fuori cinque volte a settimana, e deve cambiare sempre abbigliamento, ed escogitare qualche nuovo modo di camuffarsi: a volte mette degli occhiali finti, altre si veste come un poeta bohemien europeo, con un maglione di lana e una coppola. Non può prendere appunti, perché si farebbe notare: all’inizio andava in bagno oppure scriveva al telefono, ora va soprattutto a memoria. Comunque si vesta e comunque si comporti, Wells cerca sempre di essere «la persona meno interessante della stanza», ha spiegato a Parker. Wells sa che se viene riconosciuto, viene trattato con cortesie e premure fuori dal comune. Spesso allora i ristoratori che lo riconoscono riservano lo stesso trattamento anche ai tavoli intorno a Wells, per cercare di rendere l’ambiente più gradevole e positivo.

Alcuni critici gastronomici si pesano ogni giorno: Wells no, però ha iniziato a fare attenzione e cerca di evitare di bere alcol o mangiare cibi molto calorici, senza che il suo lavoro ne risenta. Parker scrive che non è grasso, «ma tra lui e la magrezza c’è di mezzo il suo lavoro: non può rifiutare il cibo». Wells dice che il suo corpo non è davvero suo. Prima di pubblicare una recensione di un ristorante, Wells ci va a mangiare almeno tre volte. A volte però cena due volte in un posto e decide di non recensirlo: ha raccontato che gli è capitato recentemente con Luksus, un ristorante nel quartiere Greenpoint (a Brooklyn) in stile nordico, che nonostante abbia una stella Michelin non lo ha emozionato molto («non sapevo cosa scriverne»). 

Quando mangia, scrive Parker, Wells sembra spesso intento a risolvere un rompicapo, a decifrare gli ingredienti nascosti nei piatti, e a confrontarli con gli innumerevoli altri simili che ha mangiato nella sua vita. Ha spiegato a Parker di non amare i menu di degustazione, che prevedono moltissime portate obbligatorie, perché «non lasciano spazio alla confusione e al caos che rappresenta buona parte del divertimento di andare fuori a cena». E comportano anche che i camerieri siano ogni dieci minuti al tavolo a spiegare i piatti.

L’evoluzione della critica gastronomica
Craig Claiborne, che nel 1962 diventò il primo giornalista del New York Times a recensire con regolarità i ristoranti della città, scrisse nella sua autobiografia di aver odiato il potere che gli garantiva il suo lavoro, il sapere che la fortuna o la sfortuna di un ristorante dipendeva dal suo giudizio. Funziona così ancora oggi, e anzi il meccanismo è amplificato: un singolo chef importante può possedere diversi ristoranti di alto livello, e il fallimento di una solo, dovuto alle conseguenze di una sola recensione, a sua volta magari dovuta a un solo piatto sbagliato, può minacciare centinaia di posti di lavoro.

Wells è considerato piuttosto gentile e moderato come critico gastronomico, e per questo ha anche ricevuto qualche critica all’inizio della sua carriera. Per esempio, Wells scrive mediamente meno recensioni a una stella del suo predecessore, Sam Sifton: «A nessuno piacciono le recensioni a una stella. Non piacciono ai ristoranti e non piacciono ai lettori. È molto difficile spiegare perché un posto è abbastanza buono da meritare una recensione ma non abbastanza buono da passare al livello successivo. Io cerco posti di cui posso essere entusiasta. Come un golden retriever, vorrei lasciar cadere una pallina ai piedi dei lettori ogni settimana e dire: “Ecco qui!”». Se un posto non è abbastanza buono, intende Wells, allora non merita una recensione e basta.

Le recensioni gastronomiche sono cambiate molto negli ultimi anni. Negli anni Settanta si concentravano molto sulla descrizione di quanto un ristorante fosse buono e conveniente economicamente rispetto agli altri del suo stesso tipo. In parte è ancora così: Wells ha spiegato a Parker che il sistema di valutazione con le stelle indica «quanto un ristorante arriva ad essere la migliore versione possibile di se stesso». Con la diffusione delle valutazioni online dei clienti, però, le recensioni dei professionisti sono diventate sempre più simili ad articoli letterari, ha spiegato Mimi Sheraton a Parker, critica gastronomica del New York Times negli anni Settanta e Ottanta. Una volta Wells ha citato lo scrittore britannico Martin Amis scrivendo di un ristorante spagnolo di Brooklyn: Sheraton ha detto a Parker che ai suoi tempi avrebbe menzionato Amis in una recensione di un ristorante «solo se fosse entrato, si fosse seduto e avesse ordinato paté di fegato».

Le cose sono cominciate a cambiare negli anni Novanta, quando critici come Gael Greene del New York Magazine e Ruth Reichl del New York Times adottarono uno stile più informale e brillante, meno concentrato sulle qualità dei singoli piatti mangiati, e orientato quasi a trasformare la critica gastronomica in un veicolo di critica culturale, di intrattenimento letterario.

C’è anche un’altra importante ragione editoriale dietro questa tendenza: le recensioni dei ristoranti sul New York Times, sul New Yorker o sul New York Magazine non sono lette solo da newyorkesi, ma anche da lettori che vivono in altri posti degli Stati Uniti, o a Londra o in Italia, e a cui non interessa sapere qual è la migliore aragosta di Manhattan. Nelle sue recensioni Wells cerca di evitare gli aggettivi tradizionalmente associati al cibo: per descrivere un piatto solitamente ne elenca gli ingredienti, e li associa a un’emozione. Parlando di un pasto da Mr. Donahue’s, un ristorante del quartiere Nolita di Manhattan, per esempio ha scritto:

La bietola era cotta con un po’ d’aglio e limone e briciole di pane. Il granchio sapeva di maionese e tabasco ed era stato abbrustolito e scaldato dentro un foglio di alluminio a forma di guscio di granchio. L’ho spalmato su dei cracker prendendolo da un involucro stropicciato di cellophane e l’ho mangiato con la sensazione di aver ritrovato qualcosa che avevo perso molto tempo fa, e di cui mi ero dimenticato.

Le stroncature
Le recensioni con due stelle sono le più facili da scrivere, ha raccontato Wells: è buona pubblicità per un ristorante, e Wells valuta così soprattutto quelli che si rivelano una piacevole sorpresa. Questo ha portato però a quella che Parker chiama una “bolla delle due stelle”: riceverle per molti ristoranti significa un notevole aumento degli affari, ma spesso succede che i ristoratori si accorgano che altri ristoranti a un livello inferiore ne abbiano ottenute altrettante. Allo stesso tempo, ci sono ristoranti di New York che esistono e hanno un senso solo se ottengono quattro stelle sul New York Times: e a volte non bastano neanche quelle, se nella recensione viene espressa qualche perplessità.

Per esempio, l’Eleven Madison Park venne valutato con quattro stelle da Wells. Jeff Gordiner, un amico di Wells che scrive anche di cucina sul New York Times, passò davanti al ristorante il giorno che uscì la recensione: non l’aveva letta, ma aveva visto le quattro stelle. Wells aveva scritto che il ristorante era eccellente nonostante fosse un po’ ridicolo e pomposo nel modo di presentarsi. Gordiner entrò nel ristorante, aspettandosi di trovare i proprietari entusiasti, e quando ne vide uno al bancone gli fece le congratulazioni. Lui era distrutto, e gli chiese: «L’hai letta?».

Sono pochi i ristoranti di New York recensiti con quattro stelle dal New York Times. Quando Wells andò a mangiare da Per Se, uno dei più famosi della città, sull’angolo sud ovest di Central Park, erano sei in tutto. Wells aveva abbassato a tre la valutazione di Daniel, nell’Upper East Side, ma aveva confermato il giudizio dei suoi predecessori su Le Bernardin, Jean-Georges ed Eleven Madison Park. Non aveva ancora recensito Del Posto, un altro ristorante con quattro stelle, ma aveva dato il massimo punteggio a Sushi Nakazawa, che aveva aperto da poco nel West Village. Per Se era stato aperto nel 2004 dal famoso chef americano Thomas Keller, e Sifton lo aveva descritto come «l’ideale del ristorante di lusso americano di alta cultura», raccontando anche di aver mangiato un piatto in silenzio, come se stesse ricevendo un massaggio. Un pranzo da Per Se costa più o meno 500 dollari, per farsi un’idea. Wells ci andò con tre amici e un assegno da tremila dollari. Era la sua quarta volta nel ristorante, in cui si era trovato bene in passato, ma quella sera rimase deluso. Tornando a casa, in taxi, pensò di avere in mano una pistola carica ma che non aveva il coraggio di sparare, ha raccontato a Parker.

cibony-2Il branzino alla mediterranea di Per Se (Facebook)

Wells non è un tipo che mangia solo in ristoranti da centinaia di dollari: Kat Kinsman, giornalista del popolare sito Extra Crispy, dedicato alle colazioni, ha raccontato che una volta è andata con lui da Señor Frog’s, un ristorante messicano a Times Square di una catena. Erano otto, si sono fatti fare cappellini con i palloncini dagli animatori, Wells si è inventato che fosse il compleanno di uno di loro solo per farsi cantare gli auguri dai camerieri, e sono finiti a fare il trenino bevendo shottini. Wells nel frattempo aveva cenato una seconda volta da Per Se, rimanendone sempre deluso. Dopo la serata al ristorante messicano, Wells mandò un messaggio a Kinsman scrivendole: «È possibile dire, rimanendo seri, che Señor Frog’s è un ristorante migliore di Per Se?».

Nella sua entusiasta recensione di Señor Frog’s, Wells scrisse che «pochi chef e ristoratori capiscono ancora che la gente vuole mangiare fuori per divertirsi. Ma troppi ristoranti sono diventati chiese, senza i costumi e i canti». Poi andò una terza volta da Per Se, e scrisse la sua recensione. Disse che l’aragosta era «gommosa» e che la zuppa di funghi sembrava «l’acqua di un bong». Definì Per Se uno dei peggiori ristoranti di New York per il rapporto qualità prezzo. Pensò a lungo a quante stelle dare al ristorante, e alla fine decise per due. La recensione fu subito molto ripresa e commentata su diversi siti, non solo americani: Esquire scrisse che avrebbe potuto cambiare la ristorazione di lusso per sempre. Keller scrisse una mail a Wells per ringraziarlo della recensione, spiegando cupamente che il ristorante si sforzava di garantire ai clienti la migliore esperienza possibile. In un comunicato sul suo sito, Keller sembrò scusarsi con i suoi clienti per la delusione avuta da qualcun altro, scrive Parker.

La stroncatura di Per Se è la seconda più famosa tra quelle di Wells. Nel 2012 aprì a New York, vicino a Times Square, Guy’s American Kitchen & Bar, un ristorante di Guy Fieri, famosissimo personaggio televisivo e imprenditore americano dai modi piuttosto eccentrici. Wells ci andò quattro volte, in tre delle quali qualcuno che era con lui gli confermò che era stato il peggior pasto della sua vita. La recensione che Wells ne scrisse è tuttora la sua unica a dare come giudizio “scarso”, ed era tutta sviluppata intorno a delle domande a Fieri: «Gui Fieri, hai mai mangiato nel tuo nuovo ristorante a Times Square? Ti sei seduto su uno dei cinquecento posti di Guy’s American Kitchen & Bar per ordinare una cena? Hai mangiato il cibo? Ha soddisfatto le tue aspettative?». Le stroncature, ha spiegato Wells, hanno senso solo se riguardano ristoranti su cui ci sono grandi aspettative: perché sono prestigiosi o perché sono grandi investimenti commerciali. Non ha senso dire che un ristorantino squallido a gestione familiare è pessimo: finora Wells ha fatto quindici recensioni senza stelle, solo in due casi per ristoranti che non appartenevano a chef o società che ne possedevano altri.

Wells ha spiegato a Parker che non aveva pregiudizi prima di mangiare da Guy’s American Kitchen & Bar: non amava Fieri e quello che rappresentava, ma era pronto a scriverne bene. La recensione uscì il 14 novembre e in un mese e mezzo diventò il quinto articolo più condiviso via mail del New York Times nel 2012. Wells fu insultato e criticato dai fan di Fieri, la trasmissione Good Morning America mandò la sera stessa un inviato al ristorante, e David Letterman prese in giro Fieri nel suo show. Fieri si arrabbiò molto e si difese il giorno dopo nel programma Today, accusando Wells di esserla presa con il suo ristorante perché lui non era una celebrità newyorkese, e soltanto per farsi un nome.

Una sera a cena con Wells
Parker ha cenato con Wells diverse volte per scrivere il suo articolo: il critico una volta gli ha chiesto se poteva presentarsi in anticipo da Momofuku Nishi, un ristorante alla moda di Chelsea, e chiedere della prenotazione di Michael Patcher, un nome di fantasia. «Se siamo fortunati, potrebbero darci un brutto tavolo», gli ha detto Wells. Il ristorante appartiene a David Chang, famoso chef e ristoratore americano di origini coreane, che gestisce molti ristoranti in tutto il mondo. Momofuku Nishi aveva aperto da poco, e si aspettava una visita di Wells: era anche stata appesa una sua foto sul retro per aiutare i camerieri a riconoscerlo.

Parker è arrivato in anticipo come chiesto da Wells, ma non lo hanno fatto sedere subito. Quando il critico lo ha raggiunto, una delle manager del ristorante, Gabrielle Nurnberger, li ha accolti sorridendo e si è girata per andare in cucina con un’andatura molto innaturale. Nei minuti successivi c’è stata parecchia agitazione in cucina, ha raccontato Parker. L’idea dietro il ristorante di Chang, ha spiegato lo stesso chef a Parker, è una cucina poco convenzionale e irriverente, «un vaffanculo alla cucina italiana», in cui viene servito un piatto di cacio e pepe con una crema di ceci fermentati al posto del pecorino. Parker e Wells sono stati serviti dalla manager del locale che li aveva accolti, che era evidentemente poco a suo agio e, come capita spesso a Wells, fu anche troppo gentile e premurosa («ci ha quasi spiegato cosa sia un menu»). Wells dice che a volte in questi casi vorrebbe spiattellare tutto e dire al cameriere di stare tranquillo.

cibony-1L’interno di Nishi a Manhattan (dal sito del ristorante)

All’inizio della cena Chang non era nel ristorante, ma è comparso poco dopo. «Potrebbe essere venuto con l’elicottero», ha detto Wells a Parker (in realtà era sul retro in un ufficio, ed è stato chiamato quando è stato riconosciuto Wells). Wells e Chang si conoscono, ma quando si sono visti quella sera non si sono salutati. Wells ha spiegato che se lo incontrasse a una festa se ne andrebbe: «il pericolo è diventare amico di qualcuno che dovresti sentirti libero di distruggere». Josh Pinsky, executive chef di Momofuku Nishi, ha compilato un resoconto di com’è andata in cucina la sera in cui è venuto a mangiare nel ristorante Wells. Parker, che l’ha letto, dice che ogni piatto è stato preparato due volte, come succede spesso nei ristoranti importanti in questi casi: prima di servirne uno a Wells, gli chef hanno assaggiato anche l’altro, per vedere se era a posto.

Il giorno prima di pubblicare la recensione, Wells ha chiamato Chang per verificare alcune cose. Il giorno dopo Chang si è svegliato in un bagno di sudore, ha raccontato a Parker, ed è andato a una riunione. Si era promesso di non leggere la recensione prima che fosse finita, ma non ce l’ha fatta. Dopo si è scusato con gli altri presenti e ha preso un taxi per andare al ristorante, «dove ha detto ai suoi colleghi che stavano per affrontare qualcosa di simile alla diagnosi di un cancro terminale». Wells definiva la cucina di Chang come autoreferenziale e troppo concentrata sulla tecnica: «all’inizio della sua carriera, Chang serviva il tipo di cibo che piace mangiare agli chef: intenso, selvaggio, che non aveva problemi a essere disordinato, incurante della bellezza estetica. Nishi serve il tipo di cibo che gli chef cucinano per impressionarsi tra di loro». Wells ha dato al ristorante una stella.

cibony-3Un piatto di Nishi (Facebook)

Parker ha parlato con Chang il giorno stesso in cui è uscita la recensione, e racconta che lo chef si è sfogato per un’ora e mezzo, tra autocommiserazione, rabbia e complottismo. Qualche giorno dopo si è scusato con lui, ha ammesso che non c’era nessun complotto contro il suo ristorante. «Non posso neanche rileggere quella recensione, mi incazzerei così tanto che morirei. Ho cucinato quel cibo a lungo! L’ho assaggiato! Era delizioso. E cazzo, credo nel cazzo di cibo che facciamo in quel ristorante, credo sia davvero buonissimo, credo sia innovativo, in un modo non onanistico». Si è lamentato che nella sua seconda visita Wells avesse ordinato i noodle senza glutine, che assorbono diversamente la salsa, ma che non l’aveva spiegato nell’articolo. Quindici anni fa, ha detto Chang a Parker, una recensione del genere avrebbe fatto chiudere il suo ristorante. Gli affari di Nishi sono comunque calati, e secondo Chang avrebbe dovuto lottare per sopravvivere. Nei mesi successivi prenotare un tavolo è diventato molto più facile e il ristorante ha aggiunto un menu per il brunch (e ha dovuto iniziare ad ammettere le mance ai camerieri, cosa che prima non faceva). Secondo Chang, Wells vuole solo ristoranti familiari, rivelazioni inaspettate, e nel recensire Nishi ha avuto dei pregiudizi per il fatto che appartiene a un grande imprenditore.

Wells dice invece che Chang è cambiato, rispetto a quando insieme a un socio aveva un noodle bar sulla First Avenue a Manhattan, e cucinava quello che voleva. Anche Chang, che ora ha 700 dipendenti, ha detto a Parker di avere nostalgia di quel periodo, quando cucinava per otto o dieci persone. Ora è diverso, ha spiegato a Parker, e deve preoccuparsi di quelli che lavorano per lui: non può essere incosciente. Quando Wells ha chiamato Chang per le verifiche prima di pubblicare la recensione, lo chef gli ha detto: «È orribile, Pete. Non diventa più facile col tempo». «È questa la vita che hai scelto», gli ha risposto Wells.