Boris Onischenko mentre si riveste dopo essere stato squalificato dalle Olimpiadi di Montreal (AFP/Getty Images)
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Sei storie poco conosciute dei Giochi Olimpici

Ad esempio quella pazzesca di Carlo Airoldi, ma anche il "bagno di sangue di Melbourne", oppure quella di Emil Zátopek, che vinse quattro medaglie d'oro e poi finì a lavorare in una miniera di uranio

Boris Onischenko mentre si riveste dopo essere stato squalificato dalle Olimpiadi di Montreal (AFP/Getty Images)

I Giochi olimpici moderni sono stati caratterizzati non solo dalle vittorie e dai record stabiliti dagli atleti, ma anche da molti episodi che hanno avuto un significato diverso da quello sportivo e che hanno influenzato gli avvenimenti del periodo in cui sono successi. Fatti del genere accaddero per esempio ai Giochi olimpici del 1936, organizzati dalla Germania nazista, o nelle Olimpiadi boicottate dai due paesi più importanti dell’epoca, Stati Uniti e Unione Sovietica, per via della Guerra fredda.

Molti momenti memorabili delle Olimpiadi hanno avuto singoli atleti come protagonisti. Per esempio nel 1968 venne scattata una delle foto più famose del Novecento: quella in cui gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos alzavano un braccio sul podio dei 200 metri, con i guanti neri simbolo del black power, i piedi scalzi in segno di povertà, la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”). Smith e Carlos facevano parte dell’Olympic Project for Human Rights e decisero di correre alle Olimpiadi nonostante il 4 aprile Martin Luther King fosse stato ucciso e molti altri atleti avessero deciso di non partecipare.

Quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Monaco, otto membri di Settembre nero, un movimento affiliato all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, entrarono nel villaggio olimpico e fecero irruzione nella palazzina degli atleti israeliani: ne uccisero subito due e ne sequestrarono altri nove. Nel tentativo di liberazione avvenuto alla base aerea di Furstenfeldbruck, morirono tutti gli atleti sequestrati, cinque terroristi e un poliziotto tedesco. Gli altri tre terroristi furono arrestati, ma rilasciati il 29 ottobre dello stesso anno nella trattativa per il dirottamento sopra Zagabria di un aereo della Lufthansa. Dopo il massacro, il primo ministro israeliano Golda Meir ordinò al Mossad – i servizi segreti esterni israeliani – di trovare e uccidere gli esecutori della strage: l’operazione, conosciuta con il nome di “Collera di Dio”, durò più di vent’anni e provocò la morte di più di una decina di persone ritenute collegate ai fatti di Monaco.

Questi sono alcuni degli avvenimenti più conosciuti e importanti legati ai Giochi olimpici dell’era moderna, ma ce ne sono stati molti altri, più piccoli e forse anche meno significativi, che comunque incredibili e significativi dell’epoca in cui avvennero.


L’epopea di Carlo Airoldi
Carlo Airoldi fu un atleta lombardo che visse tra il 1869 e il 1929. Di quello che fece per partecipare alle prime Olimpiadi moderne di Atene non si é mai parlato molto, anche se fu incredibile. Da alcuni anni si hanno più notizie e ricostruzioni sul suo conto, soprattutto grazie al lavoro svolto dai giornalisti Bruno Bolomelli e Manuel Sgarella, quest’ultimo autore del libro La leggenda del maratoneta. Airoldi cominciò a correre agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento: prese parte a delle gare domenicali di fondo tra la Lombardia, il Piemonte e la Svizzera, come la Lecco-Milano, la Milano-Torino e la Zurigo-Baden. Divenne molto famoso nell’ambiente sportivo italiano ed europeo nel 1895, quando vinse la Milano-Marsiglia-Barcellona, che all’epoca era un’importante corsa lunga più di mille chilometri da percorrere in 12 tappe. Airoldi era solito partecipare a molte sfide, anche le più strane: nel 1885, per esempio, sfidò Buffalo Bill, che si trovava in Italia a seguito del suo circo, a una corsa di 500 chilometri che Airoldi avrebbe dovuto percorrere a piedi e Buffalo Bill a cavallo. La sfida però non si tenne mai per via di alcuni disaccordi sull’organizzazione. Airoldi si esibiva anche come lottatore e sollevatore di pesi, faceva l’operaio in una fabbrica di cioccolata e probabilmente aiutava anche nella gestione della ferramenta della sua famiglia.

Carlo_Airoldi

Airoldi decise di partecipare alle prime Olimpiadi moderne pochi mesi prima del loro inizio, il 6 aprile 1896. Airoldi, allora ventiseienne, doveva però cercarsi uno sponsor per finanziare il suo viaggio verso Atene, che decise di fare a piedi. A sponsorizzarlo fu la rivista La Bicicletta, che gli fornì l’attrezzatura necessaria e riportò regolarmente le tappe del suo viaggio pubblicando le lettere scritte e inviate da Airoldi. Partì da Milano e fino al suo arrivo a Trieste non ebbe particolari problemi: con sé aveva solo uno zaino che conteneva un paio di scarpe da corsa, degli indumenti e del cibo. I problemi iniziarono lungo la costa adriatica dei Balcani, allora divisa fra Impero Austro-Ungarico e Ottomano. Giunto a Spalato, partecipò a una gara con il più forte corridore locale. Vinse ma venne aggredito da alcune persone che probabilmente avevano scommesso contro di lui. Continuò il suo viaggio, dormì spesso all’aperto e fece un tratto in nave per evitare il Montenegro e l’Albania, come gli venne consigliato da alcune persone incontrate in Croazia. Sbarcò a Patrasso e pochi giorni dopo riuscì ad arrivare ad Atene. Airoldi si iscrisse alla maratona delle Olimpiadi ma non ottenne il numero per partecipare alla gara: gli organizzatori vennero a sapere che aveva vinto la Milano-Barcellona e che per questo aveva ricevuto in premio del denaro, che però probabilmente fu solo un rimborso spese per aver partecipato alla corsa. Questo bastò per escluderlo dai Giochi, perché considerato professionista e non un corridore amatore.

Airoldi tentò ugualmente di partecipare alle corsa — poi vinta dal greco Spyridōn Louīs — ma venne fermato dai giudici e quindi se ne ritornò in Italia, a piedi. In una delle sue ultime lettere spedite al giornale milanese scrisse:

“Vedere arrivare il primo in mezzo a tanta festa ed io non poter correre per delle ragioni assurde, fu il più grande dolore della mia vita”.

Airoldi morì a Milano a sessant’anni, nel 1929, a causa del suo diabete.

Attilio Conton alla maratona di Amsterdam
Nelle prime edizioni delle Olimpiadi moderne, le maratone – al pari di molte altre discipline – si svolgevano in un contesto dilettantesco e poco controllato, per via della scarsità dei mezzi a disposizione e per l’organizzazione ancora molto carente. Si narra che durante la maratona della prima Olimpiade, tenutasi ad Atene nel 1896, alcuni partecipanti percorsero i tratti di percorso lontani dai centri abitati a bordo di carretti trainati da biciclette o animali. Seppur già molto importanti, i Giochi rimasero scarsamente controllati anche nei primi decenni del Novecento. Alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, il comitato organizzatore olandese non fece in tempo a terminare il villaggio olimpico (anche se molto probabilmente non sarebbe riuscito lo stesso ad accogliere tutti gli atleti) e le squadre dovettero alloggiare in hotel (solo le più ricche), nei battelli dei canali di Amsterdam e in alcuni casi furono ospitati da associazioni e abitanti locali.

Alla maratona di quell’edizione partecipò anche un italiano, il veneto Attilio Conton, uno dei più forti mezzofondisti italiani dell’epoca. Come spesso si vedeva all’epoca, non c’era molta distinzione tra mezzofondisti e maratoneti, e chi partecipava alle maratone spesso lo faceva senza nemmeno una minima preparazione per quel tipo di evento. Conton rimase nel gruppetto di testa fino a pochi chilometri dall’arrivo ma a un certo punto decise di ritirasi dalla corsa per la stanchezza: era analfabeta e parlava solo l’italiano, non aveva potuto leggere i cartelli che indicavano che all’arrivo mancavano solo pochi chilometri. La maratona fu vinta dal francese di origine algerina Boughera El Ouafi e il primo fra gli italiani fu Giuseppe Ferrera, che terminò la gara al 34esimo posto.

L’imbroglio olimpico di Montreal
Le Olimpiadi di Montreal del 1976 iniziarono il 17 luglio: fu la regina Elisabetta II a proclamare la loro apertura, in qualità di capo di Stato per il Canada. Quell’edizione dei Giochi olimpici viene ricordata soprattutto per le imprese della ginnasta romena Nadia Comăneci, del corridore cubano Alberto Juantorena e del mezzofondista finladese Lasse Virén. Ai Giochi non parteciparono 29 paesi, per protestare contro la partecipazione della squadra di rugby neozelandese a una tournée in Sudafrica, nonostante fosse in atto un boicottaggio sportivo nei confronti del Sudafrica per l’apartheid, la politica di segregazione razziale del governo sudafricano di etnia bianca.

Quello che successe a Montreal nella gara del pentathlon moderno fu un fatto senza precedenti, non tanto per la gravità di quello che accadde (che fra doping e scorrettezze, soprattutto nelle prime Olimpiadi, non era una novità) ma per la complessità dell’imbroglio. Il protagonista fu l’atleta sovietico Borys Onyščenko, allora uno dei più forti pentatleti in attività.

Onyščenko, nato in Ucraina nel 1937, prese parte alla gara di Pentathlon moderno, in cui disputò le prove di tiro a segno e di nuoto. Nel primo incontro della scherma, Onyščenko sconfisse il britannico Adrian Parker, ma il capo delegazione britannico Jim Fox segnalò al direttore del torneo, l’italiano Guido Malacarne, delle anomalie nell’assegnazione delle stoccate a Onyščenko. Malacarne fece proseguire il torneo dando solo un veloce controllo al sistema di assegnazione delle stoccate, procedura che si vede spesso anche nelle gare di oggi. Malacarne però osservò con più attenzione l’incontro successivo di Onyščenko e si rese conto che c’era veramente qualcosa che non andava quando venne assegnata una stoccata a Onyščenko anche se la sua spada si era fermata qualche centimetro dal petto dell’avversario. Malacarne interruppe l’incontro e nello stesso momento Onyščenko fece finta di niente, dicendo che anche secondo lui c’era qualcosa che non funzionava. Gli ispettori esaminarono la spada di Onyščenko e trovarono un pulsante all’altezza dell’impugnatura: ogni volta che veniva premuto, il pulsante trasmetteva un impulso elettrico che assegnava la stoccata a Onyščenko. L’incontro venne quindi annullato seduta stante e Onyščenko fu squalificato da tutte le competizioni olimpiche. Nelle ore successive venne accompagnato fuori dal villaggio olimpico da alcuni membri della delegazione sovietica e il giorno dopo fece ritorno a Kiev.

Alcuni mesi dopo la fine delle Olimpiadi di Montreal, Onyščenko venne convocato da Leonid Brežnev, allora segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Brežnev lo congedò dall’Armata Rossa e Onyščenko fu multato di 5mila rubli e gli vennero anche tolti tutti i riconoscimenti sportivi ottenuti in carriera. Tornò a Kiev, dove iniziò a lavorare come tassista e di luì non si seppe più nulla.


La storia di Emil Zátopek
Emil Zátopek è considerato ancora oggi l’atleta ceco più importante di sempre. Nacque nel 1922 e iniziò a gareggiare come mezzofondista verso la fine degli anni Quaranta. Negli anni successivi, al mezzofondo aggiunse anche la maratona. Secondo molti esperti di atletica leggera, Zátopek è uno dei migliori atleti della storia: vinse cinque medaglie d’oro alle Olimpiadi e stabilì diciotto record mondiali. Non aveva un fisico particolarmente predisposto allo sport e nei primi anni di carriera non sembrava nemmeno troppo talentuoso. Ottenne tutte le vittorie grazie ad allenamenti rigidissimi che gli permisero di ridefinire il limite della resistenza umana nell’atletica: al termine delle gare più importanti, Zátopek tagliava il traguardo completamente stremato e senza un briciolo di energie in corpo.

Alle Olimpiadi di Londra del 1948, Zátopek vinse i 10.000 metri piani, una specialità in cui prima di allora aveva gareggiato solamente in un’altra occasione. Nella sua vera specialità, i 5.000 metri, arrivò secondo. Il soprannome di Zátopek era “la locomotiva umana”, per l’idea di inarrestabilità che dava mentre correva, ma soprattutto perché era solito ansimare profondamente durante le gare.

Nel 1949 Zátopek stabilì per due volte il record mondiale nei 1.000 metri, e da lì iniziò a batterne uno dietro l’altro: dai 5.000 metri alla mezza maratona. Divenne famoso in tutto il mondo durante le Olimpiadi di Helsinki del 1952, quando vinse tre ori e stabilì tre diversi record olimpici: nei 5.000 e nei 10.000 metri piani e nella maratona, che corse per la prima volta proprio in quella occasione. Già molto popolare in Cecoslovacchia, dopo Helsinki divenne una delle personalità più note in tutto il paese, anche perché divenne l’immagine del Partito Comunista nazionale, che già frequentava attivamente prima di diventare famoso.

Zátopek venne operato per un’ernia una decina di giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi del 1956. Nonostante l’operazione e l’età avanzata – aveva 34 anni – riuscì comunque a concludere la maratona al sesto posto: quella maratona fu vinta dal francese Alain Mimoun, il più grande rivale di Zátopek. Fu la prima vittoria di Mimoun in una gara olimpica a cui partecipava anche Zátopek.

Nonostante la grande importanza che ebbe nel mondo dell’atletica leggera, la fama di Zátopek non andò di molto oltre il periodo dei suoi successi. Perché visse l’apice della carriera fra la Seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra e perché dopo la Primavera di Praga del 1968 – il periodo in cui i cecoslovacchi chiesero il decentramento dell’economia e la democratizzazione del proprio paese, allora uno degli “stati-satellite” dell’Unione Sovietica – venne punito dallo stesso regime per le sue posizioni vicine alla corrente democratica del partito comunista. Per questo gli venne assegnato un incarico da operaio nella miniera di uranio di Stráz pod Ralskem, vicino al confine settentrionale della Cecoslovacchia, e per molti anni rimase lontano dalle cronache nazionali ed europee.

Zátopek morì nel 2000 a Praga e dodici anni dopo fu inserito nella Hall of Fame della federazione internazionale di atletica leggera.

Il bagno di sangue di Melbourne
Dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta, a tutti i paesi nell’area di influenza sovietica capitò di avere periodi di forti tensioni con l’URSS. Il primo e il più violento fu la rivolta di Budapest del 1956, quando per una ventina di giorni fra ottobre e novembre migliaia di ungheresi parteciparono a un’insurrezione armata iniziata come manifestazione studentesca e portata avanti da cittadini, politici e militari. La rivolta si concluse con la repressione degli insorti da parte dell’esercito sovietico, appoggiato dagli ungheresi contrari alla rivoluzione: morirono più di 2.500 insorti, tra civili e militari, e circa 250mila cittadini lasciarono l’Ungheria per rifugiarsi nei paesi occidentali e negli Stati Uniti. Quasi contemporaneamente alla rivolta ungherese, dal 22 novembre al 18 dicembre, a Melbourne si svolsero i Giochi della XVI Olimpiade.

La squadra olimpica ungherese si confermò anche a Melbourne come una delle più forti in assoluto, e nonostante quello che stava succedendo in Ungheria arrivò quarta nel medagliere, perdendo solo una posizione rispetto alle Olimpiadi di quattro anni prima. Una delle nove medaglie d’oro ungheresi fu vinta dalla squadra di pallanuoto, che arrivò a Melbourne senza sapere niente o quasi della situazione in Ungheria: quando iniziò la rivolta, i membri della squadra si trovavano in ritiro fuori Budapest e successivamente vennero trasferiti in Cecoslovacchia per continuare la preparazione in sicurezza e lontano da quello che stava succedendo nella capitale.

Per ovvi motivi, la rivalità con la squadra di pallanuoto sovietica esisteva già da anni, anche se l’Ungheria era nettamente più forte e aveva vinto tre delle quattro medaglie d’oro nelle edizioni precedenti delle Olimpiadi. Le due nazionali giocarono contro a Mosca alcuni mesi prima dell’inizio delle Olimpiadi di Melbourne: vinse l’Unione Sovietica, probabilmente favorita dall’arbitraggio, e prima dell’inizio della partita i giocatori delle due squadre fecero a botte negli spogliatoi. Prima delle rivolta di Budapest, Ungheria e Unione Sovietica fecero in tempo a giocare contro anche una seconda volta: in Ungheria, dove vinsero i padroni di casa.

Dopo la rivolta ungherese, Regno Unito, Francia e Israele decisero di boicottare i Giochi di Melbourne per via della presenza dell’Unione Sovietica. La squadra ungherese invece si presentò al completo. Dopo avere superato il suo girone di qualificazione, la nazionale ungherese di pallanuoto si ritrovò nel girone che metteva in palio la medaglia d’oro insieme all’Unione Sovietica. Si può immaginare come arrivarono i giocatori ungheresi a quella partita: negli anni successivi il più talentuoso, Ervin Zádor, disse che lui e suoi compagni di squadra si caricarono enormemente al pensiero di affrontare gli odiati giocatori sovietici, peraltro sapendo di essere molto più forti. Decisero di far innervosire i sovietici per farli giocare male e umiliarli. La partita si disputò il 6 dicembre del 1956: come pianificato a lungo nei giorni precedenti, gli ungheresi iniziarono a provocare gli avversari, insultandoli. Oltre agli insulti, che nel corso della partita diventarono reciproci, la due squadre iniziarono a commettere un sacco di scorrettezze, sia sott’acqua che fuori. L’incontro prese il nome di “bagno di sangue di Melbourne” dopo che il sovietico Valentin Prokopov colpì Zádor con un pugno al volto, provocandogli una profonda ferita sotto l’occhio: Prokopov reagì così perché Zador insultò lui e sua madre.

Dopo l’incidente, molti tifosi ungheresi sostenuti da quasi tutti all’interno del palazzetto invasero l’arena cercando di aggredire i giocatori sovietici, che lasciarono il palazzetto scortati dalla polizia. L’arbitro fischiò la finale della partita quando la situazione divenne ingestibile: in quel momento l’Ungheria era in vantaggio 4 a 0. Zádor non poté proseguire il torneo, ma i suoi compagni di squadra riuscirono a vincere comunque la medaglia d’oro battendo la Jugoslavia in finale. A causa delle conseguenze della rivolta di Budapest, molti membri della squadra di pallanuoto non tornarono più in Ungheria. Lo stesso Zador andò a vivere negli Stati Uniti, dove divenne allenatore di nuoto e, fra gli altri, allenò anche Mark Spitz, vincitore di sette medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1972. Nel 2006 la partita tra Ungheria e URSS venne raccontata nel documentario Freedom’s Fury, prodotto da Lucy Liu e Quentin Tarantino.

USA vs. URSS 1972
Tutto quello che accadde durante le gare delle Olimpiadi di Monaco del 1972 venne messo in secondo piano da quello che avvenne il 5 settembre, quando dei membri di Settembre nero rapirono e uccisero undici membri della delegazione israeliana. Le gare tuttavia continuarono e quattro giorni dopo l’attentato si disputò la finale del basket maschile tra URSS e Stati Uniti. Era il 9 settembre, e la partita – molto combattuta – si decise negli ultimi tre secondi: tre secondi che vennero giocati per tre volte, con un seguito di polemiche e di accuse di “vittoria rubata” che andarono avanti per anni.

A tre secondi dal termine della partita il risultato era fermo sul risultato di 49 a 50 in favore degli Stati Uniti, squadra molto giovane che si trovava di fronte a una molto più esperta. L’URSS sbagliò una rimessa in gioco, e la palla andò agli Stati Uniti. L’allenatore sovietico Vladimir Kondrašin protestò vistosamente davanti al tavolo degli arbitri per un mancato time-out. A un secondo dal termine l’arbitro brasiliano Renato Righetto interruppe il gioco e lo fece ripartire con un’altra rimessa sovietica. L’URSS rimise in gioco la palla ma non fece in tempo a fare niente prima del suono della sirena che decretava la fine dell’incontro. I giocatori statunitensi iniziarono a festeggiare, ma in quel momento scese in campo il segretario generale della FIBA, l’inglese Renato William Jones, che ordinò agli arbitri di far ripetere la rimessa in gioco, questa volta portando il tempo a tre secondi: nell’istante in cui l’URSS aveva rimesso la palla in gioco per la seconda volta, il tempo non era stato reimpostato sui tre secondi.

Alla terza ripetizione, l’URSS riuscì a sfruttare la rimessa in gioco e grazie a un passaggio lungo di Ivan Edeško, Aleksandr Belov si ritrovò praticamente sotto canestro, dove segnò i due punti che valsero la vittoria dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti presentarono un reclamo ufficiale, che però non fu accolto: il risultato rimase 51 a 50 per l’Unione Sovietica.

La vittoria della nazionale sovietica fu storica: il mondo era ancora diviso e si era in piena Guerra fredda. Ma soprattutto, quella dell’URSS fu la prima volta che gli statunitensi non riuscirono a vincere la medaglia d’oro nel basket alle Olimpiadi. I giocatori americani non ritirarono mai le loro medaglie d’argento.