Come sono andate le elezioni, insomma

Una specie di "analisi del voto", per capire chi ha perso e chi ha vinto (si può, al contrario di quel che dice Renzi)

Virginia Raggi al seggio domenica (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
Virginia Raggi al seggio domenica (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)

Matteo Renzi ha posto ogni singola riflessione della sua conferenza stampa di stamattina sull'”analisi del voto” dentro il grande messaggio delle “dinamiche locali”, ripetendo più volte che una valutazione complessiva e generale – in particolare sul PD – non si potesse fare perché i risultati delle elezioni amministrative si spiegano con “dinamiche locali” che non possono essere ricondotte a giudizi degli elettori sui partiti e sul loro lavoro a livello nazionale.

È un’analisi illogica, che equivoca strumentalmente una considerazione che invece è fondata ma diversa. I risultati delle elezioni di domenica sono infatti sicuramente non sintetizzabili in un’unica valutazione: non c’è una “tendenza” generale individuabile in tutte o in molte delle città in cui si è votato, ed è impossibile trovarla per chi non cerchi sintesi faziose. Sono successe infatti molte cose diverse nelle diverse città. Ma questo non significa che in ciascuna di quelle cose successe, assieme alle “dinamiche locali”, non abbia pesato in maniere differenti anche il giudizio degli elettori sulle “dinamiche nazionali”; né che le “dinamiche locali” siano indipendenti dalle dirigenze nazionali dei partiti, dalle loro scelte, dalla loro capacità di costruire localmente delle candidature e dei progetti convincenti. Il fallimento di Napoli – ammesso dallo stesso Renzi – per il PD non significa solo che il PD napoletano non è stato capace di costruire un progetto vincente: significa che il PD nazionale non è stato capace di costruire a Napoli un gruppo capace di costruire un progetto vincente. Se Raggi stravince a Roma, non sono solo “dinamiche locali”: è il PD nazionale che ha fallito platealmente nel rendersi credibile nella città capitale d’Italia. Alla fine, è la stessa espressione “dinamiche locali” che evidenzia il fallimento di chi non è in grado di governarle o almeno influenzarle (e il successo invece di chi ci riesce, dove ci riesce).

Si può certo dare, quindi, un giudizio su chi abbia perso e chi abbia vinto, complessivamente, nelle elezioni di domenica, anche se non sarà un giudizio netto e da titoloni di prima pagina (e tiene conto ovviamente di quello che ancora deve succedere ai ballottaggi). Infatti, per esempio, la cosa più chiara è che non abbia vinto nessuno: di certo non nel modo con cui un partito esce da un voto trionfante. È evidente che il M5S abbia ottenuto il successo più vistoso e significativo: salvo grosse sorprese avrà il sindaco di Roma nientemeno, e questo dopo una serie di complicazioni e delusioni che hanno riguardato gli altri suoi sindaci importanti, che potevano essere un grosso impedimento a questo risultato. Però i suoi successi si fermano praticamente lì, al momento: e stiamo parlando del secondo partito più votato alle ultime elezioni nazionali, non di outsider o di improvvise sorprese. Tre anni dopo esserlo diventato (e quasi il primo, per poco), tutto quello che il M5S ottiene in venticinque capoluoghi sono tre candidati al ballottaggio, di cui uno solo favorito. E che in molte di queste città non avesse nemmeno un candidato non attenua ma aggrava l’effetto di evidente rallentamento della spinta complessiva.
Il M5S può essere quindi molto contento di Roma: in altri posti sta costruendo una presenza, ma marginale.

Il PD a guardare i numeri è il partito che va meglio di tutti, di gran lunga. Però si sapeva, e la questione erano le aspettative. Se da una parte è vero che un partito al governo soffre sempre di un logoramento che paga nei turni elettorali intermedi, e che di certo quello di ieri non è una “bocciatura degli elettori” (tre vittorie su cinque nelle grandi città, e la maggior parte dei sindaci in tutte le altre), è anche vero che le ambizioni e la spinta propulsiva renziane hanno perso forza. Si sono ridimensionate, normalizzate: che è il contrario del messaggio renziano di accelerazione inarrestabile e progressi sempre crescenti. Ci sono poi alcuni importanti casi singoli che testimoniano di veri e propri fallimenti: Napoli, Roma (non è che la sopravvivenza di Giachetti renda meno ignominiose le condizioni del PD a Roma), ma anche Milano, dove il risicato vantaggio di Sala dimostra due cose. Una è che Milano è una città che fu sottratta da Pisapia al centrodestra solo in virtù di una condizione unica di candidato apprezzato da tutto il centrosinistra, e che la scelta di rincorsa degli elettori al centro – responsabile di mille fallimenti milanesi in passato – continua a pagare poco, in assenza di un candidato che generi entusiasmi. L’altra è appunto che il candidato non era tanto forte, lanciato forse con troppa fretta da Renzi e dal PD che si sono illusi di beneficiare dell’effetto Pisapia più di quanto fosse il caso.
Il PD può essere contento di essere il PD, il primo partito in Italia, quindi: ma nelle città questi ultimi due anni non mostrano di averlo rafforzato, e la dirigenza Renzi ha poco da rallegrarsi. Nelle cinque grandi città non ha aggiunto niente (due dei suoi tre vincitori li ha trovati già sindaci: dei tre candidati che ha scelto, uno ha perso male, uno ha perso onorevolmente, uno è avanti di poco e va molto peggio del suo predecessore).

Il centrodestra nel suo complesso arrivava alle elezioni così male che alla fine può pure rallegrarsi di non essere stato completamente umiliato. Va di certo meglio del M5S, invertendo il risultato delle elezioni parlamentari di tre anni fa: però non ha nessuna chance di vincere qualcosa nelle città più grandi, con l’eccezione di Stefano Parisi a Milano. Che però è quasi una dimostrazione della sua insipienza, trattandosi di una candidatura pescata all’esterno del centrodestra (però bravo chi l’ha inventata) e che di sicuro è stata capace con merito tutto personale (è il maggior vincitore insieme a Raggi) di rassicurare gli spaesati elettori del centrodestra milanesi. Quanto alle singole componenti maggiori del centrodestra: Forza Italia è abbastanza inesistente, salvo rendite di posizione in poche città; Matteo Salvini non ha combinato nessuno degli sfracelli che annunciava e di cui giornali lo annunciavano capace; Fratelli d’Italia e altre estreme destre non hanno combinato niente e sono stati battuti a Roma, il posto dove sono più forti.

Restano le sinistre più a sinistra, che hanno provato a presentarsi da sole in molti posti in conseguenza della loro esclusione dai programmi renziani, e hanno raccolto pochissimo: segnali di esistenza di una piccola parte di elettorato al momento non decisiva. Almeno fino a che non è “tutti contro Renzi”: ma non c’è molto da aspettare, ed è un’altra ragione per cui la dirigenza renziana del PD ha poco da essere tranquilla, e infatti non lo è.