Le email anonime ricevute da Repubblica sul caso di Giulio Regeni

Se ne parla da mercoledì: cosa contengono e cosa si dice sulla loro affidabilità

(ANSA/ WEB)
(ANSA/ WEB)

Repubblica ha scritto ieri di aver ricevuto alcune email anonime apparentemente molto informate su quanto accaduto a Giulio Regeni, il ricercatore italiano scomparso e poi trovato morto in Egitto in circostanze ancora non chiarite. La fonte anonima di Repubblica – che secondo il giornalista Carlo Bonini, che si sta occupando della vicenda, comunica “da un account mail Yahoo, alternando, nei testi, l’inglese, qualche parola di italiano, e la sua lingua, l’arabo” – ha spiegato nel dettaglio gli spostamenti di Regeni dalla notte del suo rapimento, avvenuto probabilmente intorno alla fine di gennaio, elencando nomi e vari tipi di tortura che Regeni avrebbe subito nei giorni successivi. Alcuni giornali però, fra cui il Corriere della Sera e il giornale online egiziano Mada Masr, hanno fatto notare che il contenuto di queste mail è praticamente identico a quello di un post pubblicato su Facebook il 6 febbraio da Omar Afify, un ex colonnello della polizia egiziana dalla discutibile affidabilità.

Contattato dal Corriere della Sera, Afify ha detto però di non essere la fonte delle email anonime a Repubblica. La procura di Roma ha detto comunque al Corriere che le mail contengono una «molteplicità di imprecisioni» e che il testo pubblicato «non verrà preso neanche in considerazione» dalle indagini. Diversi esperti di Egitto e Medio Oriente hanno poi avvertito che Afify non è una fonte affidabile: Daniele Raineri, giornalista del Foglio che si occupa spesso di Medio Oriente, ha scritto su Twitter che le informazioni fornite dalla fonte anonima di Repubblica sono probabilmente “un falso”.

In tutto questo, mercoledì sera è arrivata a Roma una delegazione della polizia e dei servizi egiziani, che secondo i giornali italiani oggi consegnerà ai magistrati italiani una serie di documenti sull’indagine per la morte di Regeni. La versione ufficiale del governo egiziano è che Regeni sia stato ucciso da una banda specializzata nel rapinare gli stranieri, utilizzando per esempio uniformi della polizia: la prova principale del coinvolgimento della banda sarebbero i molti effetti personali di Regeni, tra cui i suoi documenti e le sue carte di credito, trovate nell’abitazione di uno dei rapinatori. Questa versione egiziana è stata immediatamente giudicata poco credibile da diversi osservatori e politici italiani, anche per la natura delicata degli studi di Regeni (che si occupava di sindacati e diritti dei lavoratori in Egitto) e per come la polizia e i servizi segreti egiziani non siano estranei ad arresti ingiustificati.

Cosa dicono le presunte mail arrivate a Repubblica
In un articolo firmato da Carlo Bonini e pubblicato il 6 aprile, Repubblica cita ampi stralci delle mail che dice di aver ricevuto dalla misteriosa fonte anonima. Secondo la ricostruzione della fonte, Regeni era da tempo sorvegliato da Khaled Shalabi, che viene definito il “capo della polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza”: è lui che secondo la fonte anonima ordinò di rapire Regeni e lo tenne prigioniero per 24 ore a Giza. Quest’accusa è particolarmente importante perché Shalabi fa parte degli investigatori egiziani che stanno indagando sulla morte di Regeni, e perché secondo alcuni documenti ottenuti da Reuters nel 2003 è stato condannato a un anno di carcere per non aver soccorso in tempo un detenuto ferito in una stazione di polizia di Alessandria d’Egitto (le accuse iniziali sostenevano che Shalabi avesse torturato il detenuto in questione assieme ad altri tre poliziotti).

Dopo essere passato per le mani di Shalabi, sempre secondo la fonte anonima di Repubblica, per ordine del ministero degli Interni egiziano Regeni venne consegnato alla Al Amn al Watani, cioè i servizi segreti interni egiziani, in una loro sede di Nasr City, un quartiere del Cairo. La fonte anonima sostiene che Regeni si rifiutò di collaborare con le forze di sicurezza e che per questo venne torturato per due giorni consecutivi.

E così cominciano 48 ore di torture progressive, durante le quali, per fortuna, Giulio comincia a essere semi-incosciente. Viene “picchiato al volto”, quindi “bastonato sotto la pianta dei piedi”, “appeso a una porta” e “sottoposto a scariche elettriche in parti delicate”, “privato di acqua, cibo, sonno”, “lasciato nudo in piedi in una stanza dal pavimento coperto di acqua, che viene elettrificata ogni trenta minuti per alcuni secondi”. “Bastonature sotto i piedi”.

Dopo due giorni, la fonte spiega che sempre su ordine di un consigliere del presidente egiziano Abd al Fattah al Sisi – e con il consenso dello stesso al Sisi – Regeni venne consegnato ai servizi segreti militari in un altro ufficio di Nasr City, dove continuò a essere torturato e infine ucciso.

Tre giorni di torture non vincono la resistenza di Giulio. Ed è allora – ricostruisce l’Anonimo – che il ministro dell’Interno decide di investire della questione “il consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che, informato Al Sisi, dispone l’ordine di trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari, anche questa a Nasr City, perché venga interrogato da loro”. È una decisione che segna la sorte di Giulio. “Perché i Servizi militari vogliono dimostrare al Presidente che sono più forti e duri della Sicurezza Nazionale “. Giulio “viene colpito con una sorta di baionetta” e “gli viene lasciato intendere che sarebbe stato sottoposto a waterboarding, che avrebbero usato cani addestrati” e non gli avrebbero risparmiato “violenze sessuali, senza pietà, coscienza, clemenza”. “Una sorta di baionetta”. […]

L’orrore non ha fine. “Regeni entrò in uno stato di incoscienza. Quando si svegliava, minacciava gli ufficiali del Servizio militare dicendogli che l’Italia non lo avrebbe abbandonato. La cosa li fece infuriare e ripresero a picchiarlo ancora più violentemente”. Gli stati di incoscienza di Regeni sono a questo punto sempre più lunghi. Come confermeranno i versamenti cerebrali riscontrati dall’autopsia. Ma la violenza non si interrompe. “Perché i medici militari visitano il ragazzo e sostengono che sta fingendo di star male. Che la tortura può continuare”. Questa volta “con lo spegnimento di mozziconi di sigaretta sul collo e le orecchie”. Finché Giulio non crolla “e a nulla valgono i tentativi dei medici militari di rianimarlo”.

La stessa fonte anonima sostiene che dopo la morte il corpo di Regeni è stato messo in una cella frigorifera in attesa della decisione di cosa farne, e che nel corso di «una riunione tra Al Sisi, il ministro dell’Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja» si decise di «far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore».

Cosa non torna
Repubblica ammette di non aver potuto verificare la ricostruzione della fonte anonima. Molti dettagli specifici citati nella ricostruzione sono ripresi identici dal post di Afify, come anche l’elenco degli spostamenti di Regeni: per esempio il riferimento al fatto che mentre venne trattenuto prigioniero dai servizi segreti interni egiziani, Regeni sarebbe stato lasciato in una stanza col pavimento coperto d’acqua che veniva elettrificato ogni trenta minuti. Oppure ancora che una delle ultime torture prevedeva spegnergli sigarette sul collo e sulle orecchie, e che poco dopo i medici egiziani hanno provato a rianimare Regeni ma senza successo. In generale le autorità italiane ritengono probabile che Regeni sia stato torturato – così come diversi giornali internazionali – anche se per ora i dettagli delle presunte torture non sono ancora noti.

Nel suo articolo, Bonini spiega di credere nella veridicità della ricostruzione perché alcuni dettagli, come per esempio la tortura del pavimento elettrificato, non sono stati «mai resi pubblici e conosciuti solo dagli inquirenti italiani» grazie all’autopsia su Regeni. La procura di Roma ha però smentito la rilevanza di queste mail, spiegando al Corriere della Sera che «si tratta di un anonimo, uno dei tanti, in casi come questi di forte risonanza mediatica. Non hanno nessuna rilevanza giudiziaria» e che in generale le mail contengono una «molteplicità di imprecisioni nella ricostruzione dei fatti e soprattutto in riferimento agli esami autoptici». Oggi, in un nuovo articolo di Bonini pubblicato sull’edizione cartacea, Repubblica riporta i dubbi del Corriere della Sera e della procura, continuando però a trattare la fonte anonima come attendibile.

L’unico particolare “originale”, che cioè non era già presente nel post di Afify, è il riferimento a Shalabi: cosa che potrebbe far pensare che la fonte anonima sia effettivamente una persona diversa da Afify, che però abbia ripreso estese parti dal suo post. Il coinvolgimento di Shalabi è stato suggerito in maniera indipendente anche da un articolo di Francesca Paci pubblicato ieri sulla Stampa, che fa il punto su cosa aspettarsi dall’incontro fra la delegazione egiziana e i magistrati italiani. A un certo punto Paci spiega infatti che “una fonte al Cairo suggerisce che il nome da «sacrificare» potrebbe essere quello del generale Khaled Shalaby”, facendo intuire che in questi giorni le autorità egiziane potrebbero cambiare versione e incolpare Shalabi, che Paci definisce comunque “realisticamente coinvolto nel caso Regeni”.

Rimane poi il fatto che Afify è un personaggio considerato poco affidabile. Al Jazeera ha spiegato che nel 2012 è stato condannato a cinque anni da un tribunale del Cairo «per avere aizzato le violenze contro le ambasciate di Israele e Arabia Saudita» durante le rivolte di piazza nel 2011, e che in generale «in passato ha utilizzato i social network per incoraggiare la violenza contro le autorità egiziane». Mokhtar Awad, un ricercatore che si occupa di terrorismo per la George Washington University di Washington, ha scritto che «un articolo che ha come fonte Omar Afify non è “discutibile”, ma chiaramente sballato».