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  • Sabato 12 marzo 2016

Che cosa può fare l’Italia in Libia?

Da giorni si parla di diverse forme di intervento – l'invasione di terra o l'invio di corpi speciali, per esempio – ma l'unica strada percorribile sembra essere quella diplomatica

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Nelle ultime settimane sui principali quotidiani italiani si è parlato molto di cosa potrebbe fare il governo di Matteo Renzi in Libia, dove è in corso una delle più importanti e complesse crisi internazionali che l’Italia si è trovata ad affrontare negli ultimi decenni. Nei giorni scorsi si è per esempio ipotizzato che il governo fosse pronto a iniziare un intervento militare in Libia e si sono anche quantificate le dimensioni dell’ipotetica missione: cinquemila uomini. Renzi, ospite domenica scorsa al programma di Barbara D’Urso Domenica Live, ha seccamente smentito che questa ipotesi sia ancora sul tavolo e ha detto: «Finché io sarò al governo non ci sarà alcun intervento da cinquemila uomini». Ma cosa può fare concretamente l’Italia in Libia e quali sono gli interessi in Libia che il governo italiano dovrebbe tutelare?

Gli interessi italiani in Libia
Uno dei principali è la regolazione dei flussi migratori. Negli ultimi quattro anni la rotta del Mediterraneo centrale – che dalla costa della Tripolitania (regione storica della Libia occidentale) porta all’isola di Lampedusa e alla Sicilia meridionale – è stata percorsa da quasi 400mila persone. In numeri assoluti non è un afflusso particolarmente significativo per un paese delle dimensioni e con il PIL dell’Italia (in Germania soltanto nel corso del 2015 è arrivato circa un milione di migranti), ma l’impatto sull’opinione pubblica è stato molto forte e l’immigrazione ha spesso monopolizzato il dibattito politico italiano.

Un altro importante interesse è quello economico. Prima della rivoluzione, l’Italia era il principale partner commerciale della Libia. Piccoli, medi e grandi imprenditori italiani avevano investito in Libia costruendo grandi infrastrutture o fondando piccole attività, come bar e ristoranti. La guerra ha praticamente spazzato via tutti questi piccoli investimenti, ma in territorio libico sono rimaste le grandi infrastrutture, in particolare quelle energetiche. L’ENI esercita un quasi-monopolio nell’estrazione di gas e petrolio libico. Per ragioni di sicurezza non ci sono più italiani a lavorare in Libia, ma gli impianti rimangono comunque in funzione, anche se a regime ridotto. Circa il 10 per cento del petrolio e il 6 per cento del gas usato in Italia vengono attualmente importati dalla Libia: lì l’ENI ha ancora circa 9 mila chilometri quadrati di concessioni non sfruttate.

Il terzo obiettivo è il contenimento e possibilmente l’eliminazione dei gruppi estremisti e terroristi che agiscono in Libia. Il più forte, lo Stato Islamico in Libia, occupa oramai da un anno la città di Sirte e una fascia costiera di circa 200 chilometri e conta su circa 5-6 mila miliziani, secondo le ultime stime. Ma accanto allo Stato Islamico ci sono molte altre fazioni estremiste, tra cui diverse affiliate ad al Qaida e altre indipendenti. Per il momento nessuno di questi gruppi è sembrato interessato a colpire l’Italia, ma non è detto che questa situazione continui a lungo e, in ogni caso, l’opinione pubblica spesso spinge affinché siano prese delle misure militari contro gli estremisti.

Le opzioni del governo Renzi

L’invasione
È l’opzione di cui hanno parlato i giornali nelle ultime settimane e che invoca spesso il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. L’idea è quella di inviare in Libia una spedizione militare per cercare di imporre un cessate il fuoco alle varie parti in guerra. Una spedizione simile, dice chi la appoggia, è la soluzione migliore perché permetterebbe di stabilizzare la situazione libica e tutelare tutti i principali interessi italiani: permetterebbe di regolare il flusso migratorio e nel contempo di tutelare gli impianti dell’ENI e le forniture energetiche che arrivano in Italia. La presenza militare, inoltre, potrebbe contribuire alla lotta contro lo Stato Islamico e contro gli altri gruppi terroristici.

Il problema è che attualmente questa è la soluzione meno pratica. Inviare una spedizione oggi significherebbe combattere non soltanto contro i gruppi terroristi, ma anche contro tutte le milizie e i gruppi che considerano un intervento un’ingerenza non richiesta nei loro affari. Significherebbe una guerra lunga, costosa – in termini di vite umane e di denaro – e dall’esito assolutamente non scontato. L’esercito italiano, inoltre, difficilmente potrebbe schierare un numero sufficiente di uomini tale da permettere una stabilizzazione della Libia. I cinquemila uomini di cui hanno parlato i giornali sono troppo pochi per raggiungere obiettivi così ambiziosi e difficilmente gli alleati dell’Italia potrebbero fornire i soldati mancanti.

La missione di supporto
Sarebbe molto più facile inviare truppe se in Libia ci fosse un governo di unità nazionale che facesse esplicita richiesta di un intervento. In questo caso, la missione militare non sarebbe più un’invasione, ma sarebbe più simile a un’operazione come quella compiuta dai francesi in Mali o dagli Stati Uniti in Iraq (quello del 2014 contro lo Stato Islamico), dove un corpo militare occidentale fornisce appoggio all’esercito locale. Una missione del genere potrebbe accelerare la stabilizzazione della Libia, proteggendo il governo dagli attacchi delle milizie rivali e contribuendo alla lotta allo Stato Islamico.

Di questa ipotesi si è parlato molto nel corso del 2015, ma sembra oramai essere stata esclusa per due ragioni. La prima è che un governo di unità nazionale non sembra essere in vista: i due parlamenti che formalmente si dividono il paese continuano a scontrarsi e le trattative diplomatiche per formare un governo unitario sono in grosse difficoltà. Molti leader politici libici, inoltre, hanno fatto chiaramente capire che non vogliono un intervento militare di questo tipo, che finirebbe con l’indebolire l’eventuale governo di unità nazionale, rendendolo vulnerabile alle accuse di essere un burattino dell’Occidente.

I corpi speciali
Un impegno militare ancora più ridotto sarebbe l’invio soltanto di corpi speciali, principalmente con finalità di anti-terrorismo, come stanno già facendo Stati Uniti e Francia. Questa sembra la strada scelta al momento dal governo Renzi. Il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore hanno parlato di un decreto legge, immediatamente secretato, nel quale il governo delineava una missione in Libia composta da circa 50 uomini delle forze speciali. Una settimana fa, però, il presidente del COPASIR Giacomo Stucchi ha smentito che il gruppo sia già partito, una circostanza confermata all’inizio della settimana anche al Post da una fonte militare.

Il problema è che non è chiaro quali interessi italiani in Libia potrebbero tutelare poche decine di soldati. Gli impianti dell’ENI sono troppo vasti per poter essere protetti da un piccolo gruppo di forze speciali e lo stesso vale per il traffico di migranti. L’unica missione che potrebbero portare avanti è quella anti-terrorismo, ma l’esercito italiano, a differenza di quello americano e francese, non ha una grossa esperienza in questo tipo di operazioni. Inoltre non sembra probabile che un piccolo gruppo di uomini possa alterare significativamente il corso della guerra.

La strada diplomatica
L’ultima strada possibile è quella di continuare il lavoro diplomatico portato avanti fino ad ora: cercare di creare un governo di unità nazionale e fornirgli appoggio e sostegno, ad esempio con una missione di addestramento militare, non appena si sarà formato. Il problema di questa soluzione è che probabilmente non porterà risultati nel breve termine. L’attuale tentativo di formare un governo di unità nazionale, iniziato lo scorso dicembre, sembra irrimediabilmente bloccato. Se in futuro si dovesse giungere a un accordo, ci vorranno comunque mesi prima che il nuovo governo riesca a insediarsi nella capitale Tripoli e altri mesi ancora prima che riesca a stabilizzarsi e a radunare un numero sufficiente di forze di sicurezza con cui cominciare a imporre un nuovo ordine in Libia. Nel frattempo il flusso di migranti prosegue senza troppi freni e gli impianti dell’ENI continuano a essere esposti agli attacchi.