L’unica parte per gli attori mediorientali a Hollywood: il terrorista

Storie di attori a cui vengono offerti solo ruoli stereotipati e poche battute, giusto pochi minuti prima di morire miseramente

Navid Negahban nel ruolo di Abu Nazir in Homeland
Navid Negahban nel ruolo di Abu Nazir in Homeland

L’industria cinematografica di Hollywood è spesso accusata di sessismo e razzismo: recentemente attrici come Meryl Streep, Emma Thompson, Helen Mirren e Maggie Gyllenhaal si sono lamentate per il divario tra gli stipendi tra uomini e donne, oltre che della difficoltà a trovare un ruolo importante superata una certa età, contrariamente a quanto accade ai colleghi maschi. Altri fanno notare i ruoli rari, marginali o stereotipati riservati agli attori neri (quante commedie romantiche con attori neri vi vengono in mente?). Ma c’è un altro tipo di discriminazione molto diffuso, di cui non si parla mai e che è forse più difficile da smantellare degli altri: quello verso gli attori musulmani o di origine mediorientale, a cui vengono proposti praticamente solo ruoli da terrorista islamico. Ne scrive Jon Ronson su GQ, dopo aver incontrato sette attori di cui probabilmente non conoscete il nome ma che avrete visto più volte, mentre cercavano di farsi esplodere o venivano eliminati dall’eroe di turno in film e serie tv come 24, Homeland, American Sniper, CSI e True Lies.

Ronson racconta che i ruoli del terrorista e del musulmano cattivo sono peraltro spesso caricaturali e inverosimili, e i personaggi appaiono in scena per pochi minuti: giusto il tempo di morire miseramente. Ruoli del genere sono sempre più frequenti dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, ma la discriminazioni verso gli attori arabi va avanti da anni: nel 1992 nel cartone Disney Aladdin gli arabi buoni avevano un accento americano, quelli cattivi un accento arabo. L’ultimo attore arabo diventato una star internazionale è stato l’egiziano Omar Sharif con Lawrence d’Arabia, nel 1962. Nessuno è preoccupato da questa discriminazione tranne gli attori stessi, che la vivono con difficoltà e sensi di colpa, e che sono a volte considerati traditori dagli altri musulmani. Per esempio il padre di Waleed Zuaiter, un attore palestinese-americano, ha minacciato di non parlargli più se avesse interpretato di nuovo un terrorista.

Anche se con fastidio, gli attori musulmani continuano però ad accettare i ruoli da terrorista, e Ronson riporta i consigli piuttosto divertenti che si danno l’un l’altro per ottenere la parte ai provini.

Sayed Badreya – un attore egiziano che viene ucciso in Decisione critica da Kurt Russell, da George Clooney in Three Kings, e da Arnold Schwarzenegger in True Lies – dice per esempio: «Se il provino è per la parte di un padre affettuoso, parlo con tutti. Ma se devi fare il terrorista non fare nemmeno un sorriso del cazzo a quei bianchi seduti lì. Trattali come delle merde. Appena dici ciao, esci dal personaggio». «Però alla fine del provino devi essere intelligente, uscire dal personaggio e dire “Oh, grazie amici”. Così sanno che non sarà un problema averti in giro per il set per qualche settimana», aggiunge Hrach Titizian, che ha 36 anni ed è l’attore più giovane con cui ha parlato Ronson. «Qualunque sia la parte», conclude Waledd, «quando ci vediamo ai provini è confortante. Non siamo gli unici. Ci siamo dentro tutti».

La storia di Ahmed Ahmed è piuttosto esemplare. Cresciuto a Riverside, in California, in una famiglia egiziana molto osservante, quando nel 1996 disse al padre che voleva fare l’attore lui smise di parlargli per sette anni. Ahmed ricevette una chiamata dal suo agente per un provino per Decisione critica, un filmone con Kurt Russell, Halle Berry e Steven Seagal. La parte a cui aspirava era quella del “terrorista numero quattro”: tre settimane di lavoro e una paga da 30 mila dollari. Ahmed decise comunque di provare (la sua battuta era “Siediti e obbedisci o ti uccido in nome di Allah”) e istigato dal regista che gli chiedeva di mostrarsi più aggressivo, calcò la mano tanto da ridicolizzare, nel suo intento, il personaggio: ottenne la parte. Per tutto l’anno successivo Ahmed continuò a recitare lo stesso ruolo, passando il tempo fuori dal set a ubriacarsi e a fare tardi alle feste: in parte si sentiva in colpa, in parte era preoccupato quando non trovava lavoro. Alla fine, racconta, ha chiamato il suo agente dicendogli che non voleva più ruoli da terrorista, e di chiamarlo solo se aveva qualcos’altro. «Da quella volta non mi ha più chiamato»; prima lo faceva «tre o quattro volte a settimana».

Ahmed si è messo a fare il comico nei locali, e come lui anche Maz Jobrani, che ha raccontato la sua storia nella biografia I’m Not a Terrorist, But I’ve Played One on TV. Badreya ha cercato di risolvere il senso di colpa frequentando la moschea di Culver City, in California, così da studiare più da vicino l’islam radicale e rendere i suoi personaggi più verosimili. Ha scritto e recitato in AmericanEast, un film che racconta la difficoltà dei musulmani negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, e lavora anche come consulente per i registi per aiutarli a ritrarre il mondo islamico in modo più autentico; i suoi consigli, dice, vengono spesso ignorati.

Tra i pochi che si sforzano a dipingere i musulmani in modo rispettoso c’è invece Howard Gordon, produttore di Homeland e 24. Mentre girava 24, Gordon fu accusato di islamofobia per come aveva ritratto una famiglia di musulmani. Gordon racconta che il Muslim Public Affairs Council lo aiutò a cambiare il suo punto di vista invitandolo a immaginarsi musulmano, circondato da gente che temeva la sua religione. Da allora è stato molto più attento e ha spiegato: «Mi sono spesso nascosto dietro la difesa che 24 è una serie tv su chi combatte il terrorismo. Cercavamo di convincerci che il nostro primo obiettivo fosse raccontare una storia avvincente. Tutti abbiamo i nostri pregiudizi e le nostre paure. Penso che siamo portati a sentirci minacciati dagli altri. E in questa categoria includo anche me stesso».

Ronson conclude il suo articolo con il caso particolare dell’attore iraniano Navid Negahban. Negahban ha recitato in 24 e The Stoning of Soraya M.; ha interpretato Abu Nazir, il cattivo principale di Homeland, e l’iracheno che in American Sniper aiuta i soldati american a individuare il Macellaio. Contrariamente ai suoi colleghi, Negahban è convinto che i musulmani debbano continuare a interpretare il ruolo del terrorista: «Se non lo facciamo noi, diventano una caricatura. I produttori finirebbero per metterci qualche attore che sembra mediorientale ma che viene da un altro posto». Come ha fatto per esempio Jon Stewart in Rosewater, dove l’attore messicano-americano Gael García Bernal interpreta il ruolo del giornalista iraniano-canadese Maziar Bahari («Come osa assumere un messicano-americano per interpretare un iraniano, con tutti questi strepitosi artisti iraniani-americani. Non lo sopporto», dice Anthony Azizi, che ha recitato in CSI, NCIS ed è stato ucciso con una carta di credito in 24).

Attenzione, per chi non ha finito Homeland: da qui in poi c’è un grosso SPOILER

Roson paragona Negahban all’attore più vicino a Omar Sharif che abbiamo finora, in quanto a successo. La prova è il modo in cui muore il suo personaggio più importante, Abu Nazir, contrariamente a quanto accade alla maggior parte dei terroristi dei film. Navid stesso descrive a Ronson la morte di Nazir: «Oh, è stata davvero elegante. È seduto compostamente a terra, in ginocchio. È pronto. I soldati entrano nella stanza. Tutti urlano. Ma lui è tranquillo. Li sta semplicemente osservando uno a uno, con molta calma. E poi mette la mano in tasca e gli sparano. Ma in tasca c’era solo il Corano. È stato bello. Ho fatto una bella morte».