Ah, i cartoni animati di una volta

Marianna Rizzini si lamenta sul Foglio della mosceria di Peppa Pig rimpiangendo la «favola che non ti risparmia niente», come Lady Oscar o Candy Candy

Sul Foglio di sabato 30 maggio Marianna Rizzini ha scritto un lungo articolo lamentandosi dell’eccessivo “buonismo” dei cartoni animati più popolari degli ultimi anni, prendendosela in particolare con Peppa Pig: un cartone animato britannico creato undici anni fa e incentrato su una pacifica famiglia di maialini umanoidi.

Secondo Rizzini la qualità di Peppa Pig è molto inferiore ai cartoni animati che andavano più in voga venti o trent’anni fa: e cioè i due cartoni animati giapponesi Lady Oscar e Candy Candy, entrambi andati in onda in Giappone per la prima volta circa quarant’anni fa e replicati per anni dalle televisioni italiane. Secondo Rizzini, Peppa Pig «non soffre, non lotta, non ha amici dispettosi. Se va male, si sporca di fango o si dimentica di mettere a posto qualcosa, ma tanto nessuno la rimprovera». Tutto il contrario di quanto accadeva in Lady Oscar e Candy Candy, che secondo Rizzini erano più complessi e raccontavano di temi come «la paura di crescere, il terrore di perdere i genitori, i confitti interiori nascenti, il senso di inadeguatezza, le pulsioni contraddittorie che si affacciano verso la fine dell’infanzia, l’angoscia della solitudine e dell’inconoscibile, la soddisfazione del risultato».

Candy Candy, il tragico e irresistibile fumetto-soap giapponese, compie quarant’anni. Lady Oscar, l’ancora più tragico e ancora più irresistibile fumetto-soap giapponese, li ha compiuti da poco. E anche se gli ex fan per lo più non se n’erano accorti, presi com’erano dalla vita pratica o, sul web, da notizie su minaccia-Isis, ripresa-Istat, impresentabili in lista e meduse giganti, a un certo punto è diventato palese il revival dei feuilleton a fumetti che hanno per protagoniste la ragazza tutta lentiggini che vuole fare la crocerossina (nel lavoro e quasi quasi anche in amore) e la donna-soldato tormentata alla corte di Francia (Oscar). A sottolineare l’evento, due saggi (Ultra ed.), uno per “eroina”: “Candy Candy, l’eroina di una generazione” di Lidia Bachis e “Lady Oscar, l’eroina rivoluzionaria” di Valeria Arnaldi. Personaggi non convenzionali per l’epoca, e polpettoni-melodramma che andavano in onda in orario “per bambini”, ma senza preventivo passaggio nel bagno di bontà (qualche censura c’era stata, e anche un’interpellanza parlamentare contro gli “anime” giapponesi nel 1978, ma la storia non rassicurante di Candy e Oscar restava quella).

Non erano favole in senso stretto, ma, come le favole non riviste e non corrette di ieri (fratelli Grimm, Charles Perrault), spiattellavano e non lesinavano, oltre ai sogni frustrati dei protagonisti, tutto il carico di angoscia, terrore, cattiverie, scenari orrorifici, voltafaccia, tradimenti, pianti e delusioni (con poche consolazioni). Ma erano tacitamente e preventivamente assolte da ogni possibile vera responsabilità di trauma nello sviluppo, quelle storie. Non si sentiva dire “creano turbamento” o “propongono modelli sbagliati”, se non sporadicamente da parte di qualche nonno scandalizzato da Candy che a diciotto anni aveva già avuto due fidanzati, uno platonico (Anthony), l’altro meno (Terence), e da Oscar androgina che fa innamorare le ignare donne che la credono uomo e si innamora di uomini che, credendola uomo, non la considerano – a parte il fedele André, vero amore, sbocciato per lui durante l’infanzia e per lei in punto di morte.

Erano assolte di fatto, Candy e Oscar, vuoi per distrazione genitoriale vuoi perché non si vedeva poi tutto questo danno potenziale nella morale sottesa alle loro vicende. Le si considerava magari una versione trash, ma non così lontana come impianto, delle favole tradizionali con i buoni, i cattivi, le streghe, gli orchi, i traditori, il principe, il povero, il fortunato, lo stolto e l’intelligente, nel solco degli antenati illustri: i fratelli Grimm o Charles Perrault, per non dire de “Le mille e una notte”. Ed era un mondo favolistico in cui, alla fine, si stava a proprio agio: il cattivo imperversava, ma non trionfava, e se il buono non vinceva, qualcos’altro dava motivo d’esistere al tribolare del protagonista. Non per niente è il Giambattista Basile del “Cunto de li cunti” a fare da canovaccio al film di Matteo Garrone appena tornato, senza premi ma con onori, dal Festival di Cannes: film di archetipi, suggestioni e favole intrecciate, con tutti gli orchi, i mostri, i doppi, le paure ancestrali, i desideri proibiti, i boschi intricati, le fonti magiche, i castelli e le fanciulle perdute al posto giusto.

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