Halden, un’altra idea del carcere
Un bell'articolo del New York Times spiega perché il carcere norvegese accusato di essere troppo indulgente non fa bene ai detenuti: fa bene a tutta la Norvegia
di Andrea Fiorello – @andreafiorello
Il carcere norvegese di Halden è considerato quello che garantisce le più alte condizioni di civiltà e rispetto umano del mondo: quando fu aperto l’8 aprile del 2010 gran parte della stampa internazionale lo definì, in modo piuttosto demagogico e superficiale, una “prigione a cinque stelle” perché le sue celle hanno la tv e il frigorifero, l’estetica di edifici e arredi è molto curata, e il suo muro di cinta è confuso tra gli alberi ed è privo di accessori minacciosi.
Partendo dall’idea che le carceri punitive non funzionano in termini di “rieducazione” e maggior sicurezza per i cittadini, nel realizzare Halden il governo norvegese ha seguito il principio secondo cui è necessario che i detenuti siano trattati umanamente affinché abbiano maggiori possibilità di reinserimento nella società e minori incentivi a compiere nuovi reati: per questo la prigione – che è costata quasi duecento milioni di euro e il lavoro di dieci anni – è dotata di uno studio di registrazione, percorsi da jogging, una cucina comune e una foresteria per i parenti che si fermino in visita ai detenuti.
A circa cinque anni dalla sua apertura, la giornalista del New York Times Magazine Jessica Benko ha visitato Halden per raccontare la vita quotidiana all’interno della prigione norvegese e per capire se l’esperienza di un carcere il più possibile accogliente e simile al mondo esterno stia funzionando. Benko scrive che dall’esterno Halden non sembra nemmeno un carcere: il muro di cinta che lo circonda è alto circa otto metri, ma fuori dal suo perimetro non ci sono né bobine di filo spinato, né recinzioni elettrificate e tantomeno torrette presidiate da cecchini istruiti a sparare su possibili fuggitivi. Eppure, scrive la giornalista, in questi cinque anni nessuno ha mai provato a fuggire.
Confrontato con le strutture penitenziarie di altri paesi – racconta Benko – Halden sembra qualcosa di completamente fuori dal mondo: le sue strutture moderne, accoglienti e ben arredate, la libertà di movimento che offre (compatibilmente con la detenzione) e l’atmosfera calma e silenziosa sono caratteristiche opposte a quelle delle carceri che ci sono più o meno familiari. Queste attenzioni nei confronti degli occupanti sono la materializzazione dei principi norvegesi riguardo alle punizioni e al perdono: il trattamento dei detenuti è totalmente dedicato a prepararli per la vita che dovranno condurre quando usciranno dalla prigione. In Norvegia non solo non c’è la pena di morte, ma neppure l’ergastolo: la pena massima per qualsiasi crimine è di 21 anni di detenzione. “Meglio fuori che dentro” è il motto non ufficiale dell’autorità penitenziaria norvegese, che si propone la reintegrazione nella società per tutti i detenuti che vengono rilasciati: questo dipartimento statale lavora con le altre agenzie governative per assicurare una casa, un lavoro e l’accesso ai servizi di assistenza sociale per ciascun carcerato prima ancora che venga rilasciato.
Grazie a un reddito pro capite tra i più alti del mondo, che deriva soprattutto dall’estrazione di petrolio nel Mare del Nord, la Norvegia può permettersi di garantire un welfare esteso ai suoi cittadini e di investire molto denaro nel suo sistema carcerario: secondo i dati del Vera Institute of Justice di New York, infatti, un detenuto di Halden costa al sistema carcerario norvegese circa 85mila euro l’anno, rispetto ai 28.500 euro spesi per un detenuto negli Stati Uniti. A un primo sguardo la differenza tra le due cifre sembra molto elevata, ma se gli Stati Uniti d’America avessero un numero di carcerati proporzionalmente simile a quello norvegese (75 ogni 100.000 abitanti, contro i circa 700 degli USA), il governo americano potrebbe spendere per ciascun detenuto la stessa cifra della Norvegia e in più risparmierebbe 41,3 miliardi di euro ogni anno. In un periodo come questo, in cui il sistema penitenziario statunitense è molto criticato per la durezza delle sue sentenze, l’eccessivo affidamento sull’isolamento dei detenuti e la disparità di trattamento tra le etnie – scrive Benko – i cittadini USA dovrebbero chiedersi che vantaggi porta spendere tanto denaro per 2,2 milioni di detenuti e se non sia il caso di imparare qualcosa dal sistema norvegese, che parte da un punto di vista diametralmente opposto.
In Norvegia la pena di morte per i civili fu eliminata nel 1902, mentre l’ergastolo venne abolito nel 1981; fino al 1998, però, le prigioni norvegesi funzionavano in maniera simile a quelle degli altri paesi democratici. In quell’anno il Ministero della Giustizia riformò i metodi e gli obiettivi del sistema penitenziario nazionale, dando esplicita priorità alla riabilitazione dei prigionieri attraverso l’educazione, la formazione lavorativa e la terapia. Nel 2007 le riforme si concentrarono sulla reintegrazione, con particolare attenzione verso l’assistenza ai detenuti nella ricerca di una casa e di un lavoro stabile ancora prima della scarcerazione. Halden fu la prima prigione costruita dopo questa serie di riforme, così la riabilitazione divenne il fondamento della sua progettazione: ogni caratteristica della struttura fu sviluppata con l’obiettivo di moderare la pressione psicologica sugli occupanti, ridurre i conflitti e minimizzare le tensioni interpersonali. Per questo all’interno del muro perimetrale, a separare la prigione dalla campagna circostante, ci sono quasi 50mila metri quadri di foresta tipica del sudest norvegese, un paesaggio composto di cespugli di mirtillo, pini silvestri, felci, muschi e betulle. Secondo Gudrun Molden – una degli architetti che hanno progettato Halden – la foresta di mirtilli non è solo un ambiente naturale utile alla riabilitazione, ma per i norvegesi rappresenta un paesaggio familiare, che fa parte della crescita e dei ricordi di ciascuno.
In tutto il mondo, la maggior parte delle prigioni di massima sicurezza è realizzata su terreni completamente piatti e privi di vegetazione, per ridurre al minimo il rischio di fughe e per togliere ai detenuti la possibilità di nascondersi. Jan Stromnes, vicedirettore del carcere, ha raccontato a Benko che quando alcuni membri dello staff provenienti da altre prigioni norvegesi arrivarono la prima volta a Halden, si preoccuparono per la presenza del bosco: «Erano piuttosto sorpresi dal fatto che ci fossero alberi e dal loro numero. Non sarebbe stato meglio rimuoverli? E cosa sarebbe successo se i detenuti si fossero arrampicati? Noi rispondemmo che, beh, se si fossero arrampicati avrebbero potuto sedersi sui rami e restarci finché non si fossero stancati, e a quel punto sarebbero tornati giù,» e sorridendo ha aggiunto «Nessuno ha mai provato a nascondersi nel bosco. Ma anche se provassero a scappare là dentro non andrebbero molto lontano: resterebbero comunque dentro».
“Dentro” significa all’interno del perimetro del muro di cinta, l’elemento che più di ogni altro definisce il carcere. Quello di Halden è visibile da ogni punto della prigione e rappresenta un ineludibile promemoria che ricorda costantemente ai detenuti la loro condizione. Poiché gli edifici di Halden sono stati concepiti appositamente per essere “a misura d’uomo”, hanno un’ampiezza modesta e non sono più alti di due piani; in un contesto simile, il muro diventa una presenza di dimensioni notevoli, scrive Benko. Le due responsabilità principali del sistema penitenziario – detenzione e riabilitazione – sono in costante tensione tra loro e gli architetti che progettarono Halden pensarono che il muro avrebbe potuto rappresentare la prima: «Ci siamo affidati al muro» come simbolo e strumento di punizione, ha spiegato Molden.
Quando nel 2002 Molden e i suoi collaboratori visitarono l’area di Halden, in preparazione al concorso internazionale indetto per progettare la prigione, decisero che avrebbero lasciato il contesto naturale più intatto possibile: per dirigersi alle proprie attività quotidiane di scuola, lavoro o terapia, i detenuti avrebbero camminato all’aperto, su e giù per le colline, su superfici irregolari, esattamente come avrebbero fatto al di fuori della prigione. Gli architetti decisero di realizzare gli edifici abitati dai detenuti a forma di anello, mentre nella scelta dei materiali presero ispirazione dai colori della natura circostante. Il materiale principale di cui sono fatti gli edifici è un mattone di cotto annerito; per rappresentare la detenzione è stato scelto un materiale “duro”, pannelli di acciaio zincato, mentre il legno di larice non trattato – con le sue sfumature che vanno dal tortora al grigio chiaro – rappresenta il lato “morbido” associato alle idee di riabilitazione e crescita.
Il sistema penitenziario norvegese enfatizza la “sicurezza dinamica”, un metodo che vede le relazioni interpersonali tra gli addetti e i detenuti come il fattore fondamentale per garantire la sicurezza all’interno del carcere. L’opposto di questo approccio è rappresentato dalla “sicurezza statica”, predominante nella maggior parte delle prigioni di massima sicurezza, che si affida a un ambiente progettato per prevenire i comportamenti pericolosi dei detenuti. In questo tipo di carceri gli occupanti sono costantemente sorvegliati da videocamere, costretti da porte che possono essere chiuse a distanza, mentre il vandalismo e la violenza sono evitati grazie a un mobilio a prova di manomissione. Quando devono essere spostati, i detenuti sono ammanettati e scortati a destinazione, mentre le guardie carcerarie vengono addestrate a ridurre al minimo le interazioni umane per evitare il rischio di scontri.
La sicurezza dinamica non cerca di limitare i danni o di rendere le violenze impossibili, ma si occupa di prevenirle favorendo le interazioni tra detenuti e guardie carcerarie: durante la progettazione di Halden, ad esempio, agli architetti fu ordinato di fare in modo che le guardiole fossero più piccole possibili, così da spingere gli addetti della prigione a passare il proprio tempo nelle aree comuni insieme ai carcerati. A Halden, infatti, le guardie socializzano con i detenuti ogni giorno e conversano con loro mentre prendono un caffè, un tè o durante un pasto. Le aree esterne del carcere sono sorvegliate da telecamere, ma i detenuti spesso si muovono senza accompagnamento, usufruendo di un basilare livello di fiducia che l’amministrazione penitenziaria giudica essenziale per il loro progresso personale. Nelle classi dove si fa lezione, nei laboratori, nelle aree comuni o nelle zone delle celle, invece, non ci sono telecamere a riprendere quanto succede; questa sorveglianza molto blanda potrebbe permettere a un detenuto con cattive intenzioni di tenere comportamenti violenti, ma questo evidentemente non succede: nei cinque anni di funzionamento di Halden, la cella d’isolamento non è mai stata usata.
Benko fa notare che la relativa calma della vita di Halden non dipende dalla natura tranquilla dei norvegesi o dalla loro omogeneità come gruppo etnico: solo tre quinti dei detenuti del carcere, infatti, sono cittadini norvegesi, gli altri provengono da 30 nazioni (prevalentemente Europa dell’est, Africa e Medio Oriente) e parlano norvegese poco o per niente. Per questa ragione, la “lingua franca” del carcere è l’inglese, necessario perché le guardie carcerarie possano comunicare con i prigionieri stranieri.
Dei 251 detenuti di Halden, circa la metà sono stati imprigionati per crimini violenti come omicidio, aggressione o stupro, mentre un terzo è dentro per traffico o spaccio di droghe; nonostante ciò, incidenti violenti o minacce sono piuttosto rari e avvengono quasi tutti nell’Unità A. Questa è la zona più restrittiva del carcere: ospita i detenuti che hanno bisogno di un’assistenza medica o psichiatrica stretta, oppure quelli che hanno commesso crimini che li metterebbero in pericolo nelle Unità B e C, le aree più “libere” del carcere dove la maggior parte degli occupanti convive durante il giorno seguendo i programmi scolastici, lavorativi o di terapia.
Benko racconta di aver incontrato alcuni detenuti dell’Unità A nell’area comune di un blocco occupato da otto uomini: nella stanza c’erano un divano arancione di vinile, alcuni scaffali con giochi da tavolo, riviste e manuali di diritto, mentre sotto la finestra che dava sul cortile dell’unità due detenuti erano intenti a giocare a carte con una guardia. Un prigioniero chiamato Omar le ha passato una cialda a forma di cuore appena cucinata, mentre Benko parlava con Chris Giske, un detenuto che parlava in ottimo inglese: «Hai sentito parlare del caso di Sigrid?» le ha chiesto Giske. «È uno dei casi più famosi in Norvegia». Nel 2012, una ragazza di 16 anni chiamata Sigrid Schjetne sparì una sera mentre rientrava a casa; il suo corpo fu trovato un mese dopo e la condanna di Giske lo rese uno degli assassini più odiati nella storia norvegese.
Dopo aver assaggiato il tipico formaggio marrone norvegese (il “brunost” o “mysost”, fatto di siero caramellato del latte, uno scarto di produzione del formaggio che viene cotto per mezza giornata), il direttore della prigione Are Hoidal ha spiegato a Benko che mangiare tutti insieme waffle e altri spuntini è un’abitudine tipica delle famiglie norvegesi, per questo la ricerca della “normalità” all’interno di Halden prevede che anche i detenuti dell’Unità A si incontrino una volta a settimana nelle aree comuni per prendere parte a questa specie di rituale. A Halden alcuni detenuti seguono corsi di cucina per ottenere certificati professionali e Benko ammette che il pasto migliore che ha ricevuto in Norvegia – lasagna piccante, pane all’aglio e insalata con pomodori secchi – le è stato preparato da un detenuto che aveva passato quasi metà dei suoi 40 anni in carcere.
La giornalista ha anche incontrato i detenuti dell’Unità C8, un settore dedicato al recupero dalla tossicodipendenza: questi stavano tornando alle loro celle dopo aver fatto la spesa settimanale al negozio di alimentari interno della prigione. Dopo aver portato in cucina il cibo necessario per i pasti comuni, ciascuno è tornato nella propria cella per riempire il piccolo frigo personale di snack, frutta e bevande. Uno dei prigionieri era Tom, un uomo poco sotto la cinquantina con il corpo ricoperto di tatuaggi: la sua testa era completamente rasata, con “Fuck the Police” scritto in corsivo sul lato destro e “RESPECT” in maiuscolo su quello sinistro. Un tatuaggio sotto all’occhio destro era stato cancellato, mentre sotto quello sinistro c’era il numero “666”; una lunga cicatrice gli percorreva il collo e la testa, residuo di un incidente in motocicletta che lo aveva lasciato in coma l’ultima volta che era stato fuori di prigione.
Benko racconta che a un certo punto Tom ha indicato la stanza dietro di lei e ha detto «Ora sei rimasta sola, vedi?»: la donna si è girata e ha visto che c’erano altri otto detenuti che giocavano ai videogiochi o ritiravano la biancheria stesa, ma non c’era nessuna guardia. Le condanne ricevute da quel gruppo di carcerati includevano omicidio, possesso illegale di armi e aggressione, ma lei si è mantenuta calma nonostante la sorpresa: gli agenti potevano vederla dalle finestre della loro guardiola e in ogni caso Benko racconta di essere stata lasciata più volte da sola, con le guardie che aspettavano al fondo del corridoio per permetterle di intervistare i detenuti in una situazione più riservata. Dopo la frase apparentemente minacciosa, infatti, Tom la ha rassicurata aggiungendo, con un tono quasi d’orgoglio, «ed è tutto OK».
Quando Halden fu aperto, i giornali descrissero l’arredamento del carcere come “lussuoso”, “elegante” e lo compararono a quello di un piccolo hotel. In realtà – scrive Benko – i mobili di Halden non sono molto diversi da quelli di un dormitorio universitario: la loro caratteristica particolare, piuttosto, è quella di essere mobili “normali”, cioè non progettati per un carcere. Gli arredi potrebbero essere usati come corpi contundenti o dati alle fiamme; anche in cucina – come un detenuto ha fatto notare – ci sono molti oggetti che potrebbero essere usati come armi, se qualcuno lo volesse: i piatti sono di ceramica, i bicchieri di vetro, le posate di metallo e a disposizione dei detenuti ci sono anche lunghi coltelli da cucina, legati a un cavo di metallo plastificato.
Gli agenti penitenziari cercano di limitare ogni tensione che potrebbe sfociare in violenza: se due detenuti hanno problemi, una guardia o il cappellano della prigione li riuniscono per una sessione di mediazione che dura finché i due non hanno raggiunto un accordo pacifico e si sono stretti la mano. Anche le gang rivali accettano di non combattersi all’interno del carcere, benché la promessa non resti valida quando i componenti vengono rilasciati. I pochi incidenti violenti accaduti a Halden si sono verificati quasi esclusivamente nell’Unità A, dove sono tenuti i prigionieri con problemi psichiatrici più gravi. Se un detenuto viola le regole, le conseguenze sono rapide, coerenti e applicate in modo uniforme. Eventuali comportamenti recidivi vengono puniti con la reclusione all’interno della cella durante le ore di lavoro, a volte senza la possibilità di guardare la televisione: Benko scrive che un detenuto le ha raccontato di un prigioniero proveniente dall’Europa dell’Est che riuscì a connettere il suo televisore a Internet e per questo l’apparecchio gli venne tolto per cinque mesi. «Cinque mesi!» ha detto stupito il detenuto alla giornalista, «Non so come abbia fatto a sopravvivere».
Benko ammette che a un primo sguardo è difficile credere che Halden, con i suoi 251 detenuti, possa rappresentare un modello per un paese come gli Stati Uniti d’America, dove la media nelle prigioni di massima sicurezza è di 1.300 prigionieri. Anche i numeri totali – 3.800 detenuti in Norvegia, 2,2 milioni di USA – potrebbero apparire logisticamente e finanziariamente incomparabili, eppure c’è stato un momento in cui gli USA pensarono di adottare un approccio alla giustizia criminale simile a quello norvegese: nella sua “guerra al crimine”, il presidente Lyndon B. Johnson nominò una commissione di 19 esperti (President’s Commission on Law Enforcement and Administration of Justice, commissione presidenziale sull’applicazione della legge e l’amministrazione della giustizia) perché studiassero, tra le altre cose, le condizioni e le pratiche delle carceri statunitensi, già allora catastroficamente sovrappopolate. La relazione del 1967 che ne risultò, intitolata “The Challenge of Crime in a Free Society” (la sfida del crimine in una società libera), sosteneva che molti penitenziari statunitensi fossero dannosi per la riabilitazione: “La vita in molte carceri è nella migliore delle ipotesi sterile e futile, nella peggiore indicibilmente brutale e degradante. […] Le condizioni in cui vivono i detenuti sono la peggiore preparazione possibile alla riuscita del loro reinserimento nella società e spesso semplicemente rinforzano in loro un modello di manipolazione e distruttività”. Nelle raccomandazioni, la commissione propose una visione delle carceri molto simile a quella di Halden: “Architettonicamente, la prigione moderna dovrebbe assomigliare il più possibile a un normale ambiente residenziale. Le stanze, ad esempio, dovrebbero avere porte invece che sbarre. I detenuti dovrebbero mangiare seduti a piccoli tavoli in un’atmosfera informale. Ci dovrebbero essere classi, ambienti per il tempo libero, aree diurne e magari un negozio e una biblioteca”.
A metà degli anni settanta, il federal Bureau of Prisons (dipartimento federale carcerario) statunitense completò tre carceri di detenzione preventiva progettate secondo i principi della relazione del 1967. I tre Metropolitan Correctional Centers (o MCC, centri correzionali metropolitani) ospitavano gruppi di 44 detenuti in unità autonome, dove ognuna delle celle singole con porte di legno si affacciava su un’area comune, dove i detenuti mangiavano, socializzavano e s’incontravano con visitatori e consulenti, riducendo la necessità di spostamenti al di fuori dell’unità. Tutti i prigionieri passavano l’intera giornata fuori dalle proprie celle, con un solo agente penitenziario privo di armi, in un ambiente finalizzato a diminuire lo stress, dotato di mobili di legno, tavoli all’interno delle celle, bagni di porcellana, lampade a vista, pareti dai colori vivaci, lucernari e pavimenti in moquette.
Quando questi centri aprirono, però, l’atteggiamento pubblico e della politica verso i programmi di riabilitazione nelle prigioni americane era cambiato: tra i responsabili di questo cambio di approccio ci fu Robert Martinson, un ricercatore di sociologia alla City University di New York. In un articolo del 1974 sulla rivista Public Interest, Martinson descrisse uno studio che analizzava l’impatto dei programmi di riabilitazione nei confronti della recidiva di reato sulla base di dati raccolti dal 1945 al 1967. Nonostante circa la metà dei programmi individuali avessero ottenuto risultati nella riduzione della recidiva, l’articolo di Martinson concludeva che nessun tipo di programma riabilitativo del sistema penitenziario aveva dato esiti soddisfacenti.
Lo studio di Martinson diede materiale alla stampa e ai politici per affermare che “nulla funziona” quando si tratta di riabilitazione dei detenuti. “Non funziona” divenne il titolo di una puntata del programma di attualità 60 Minutes in onda sul canale televisivo CBS, mentre nel 1975 il governatore della California Jerry Brown dichiarò che i programmi di riabilitazione “Non riabilitano, non dissuadono, non puniscono e non proteggono”. Uno dei maggiori psichiatri del Bureau of Prisons si dimise, deluso da un atteggiamento che percepiva come l’abbandono dell’impegno alla riabilitazione, mentre nel 1974, alla cerimonia d’inaugurazione del MCC di San Diego, il Procuratore Generale degli Stati Uniti d’America William Saxbe dichiarò che la possibilità per il sistema penitenziario di ottenere la riabilitazione era un “mito”, tranne che per i criminali più giovani.
Lo studio di Martinson fu presto contestato: nel 1975 un’analisi degli stessi dati fatta da un altro sociologo criticò la scelta dello studioso di ignorare i risultati positivi, per giungere a una conclusione generale priva di fondamento. Nel 1979, Martinson pubblicò un altro studio che ribaltava esplicitamente le sue conclusioni precedenti, dichiarando che “contrariamente alla mia posizione precedente, alcuni programmi di trattamento hanno un effetto apprezzabile sulla recidiva”. Ma oramai la narrativa del “nulla funziona” si era fermamente radicata: nel 1984, una relazione del Senato USA che proponeva sentenze penali più dure citò lo studio di Martinson del 1974, ignorando completamente il suo cambio di opinione successivo. Le politiche d’intransigenza nei confronti del crimine che furono promosse in seguito dal Congresso e dal governo USA prevedevano minimi di pena obbligatori, detenzioni più lunghe, normative che autorizzavano processi per i minorenni uguali a quelli degli adulti e il rilascio di detenuti senza programmi di reintegrazione. Tra il 1975 e il 2005, la quota di detenuti negli Stati Uniti d’America è passata da circa 100 ogni 100mila cittadini a quasi 700, uno dei dati più alti nel mondo: nonostante gli statunitensi rappresentino il 4,6 per cento della popolazione mondiale, infatti, le prigioni americane trattengono il 22 per cento dei detenuti di tutto il mondo.
Oggi – scrive Benko – il modello dei MCC è conosciuto come direct supervision (supervisione diretta) e sopravvive in circa 350 strutture, per la maggior parte locali e di detenzione breve, che rappresentano meno del 7 per cento del totale. I dati degli ultimi 40 anni mostrano che queste prigioni hanno livelli di violenza e di recidiva inferiori alla media: alcune di queste strutture, se direttamente comparate con quelle precedenti, hanno visto le violenze ridursi del 90 per cento. Come spiega Benko, però, applicare le statistiche di questo piccolo gruppo di carceri all’intera organizzazione penitenziaria statunitense non ha senso: per potersi avvicinare al sistema norvegese, l’intero atteggiamento nazionale verso la detenzione – a tutti i livelli – dovrebbe cambiare radicalmente.
Non è poi facile valutare esattamente quanto il metodo norvegese funzioni. Per provare ad avere più dati, la giornalista del New York Times Magazine ha incontrato l’antropologo Ragnar Kristoffersen, insegnante all’Accademia del Sistema Penitenziario norvegese, dove si occupa di formare le guardie carcerarie. Kristoffersen ha pubblicato uno studio che compara i tassi di recidiva nei paesi scandinavi: un sondaggio tra i detenuti rilasciati nel 2005 ha mostrato che in Norvegia il tasso di recidiva dopo due anni era del 20 per cento, il più basso della Scandinavia. Per dare un riferimento, una ricerca del 2014 realizzata negli Stati Uniti d’America ha stimato che circa il 68 per cento dei detenuti rilasciati nel 2005 sono stati arrestati per una nuova violazione entro tre anni.
Parlando di Halden, Kristoffersen si è detto disgustato dagli articoli della stampa anglosassone che descrivevano il carcere come un hotel di lusso, ma passando al tema dell’efficacia del “metodo Halden” nei confronti della recidiva si è dimostrato molto cauto, sostenendo che le statistiche non sono abbastanza affidabili per valutare le pratiche detentive in generale.
Da un sistema giudiziario all’altro, infatti, ci possono essere molte differenze nella gestione dei reati: ad esempio, il tipo di sentenze e la loro durata, il genere di crimine o quanto è facile che un soggetto sia rimesso in carcere per una violazione tecnica alla liberazione per buona condotta. A queste differenze, che rendono quasi impossibile comparare i sistemi penali, si aggiunge la diversa definizione di “recidiva” in ciascun paese: alcune nazioni considerano qualunque tipo di arresto come una nuova violazione, altre includono solo i casi che terminano in detenzione, mentre per altre ancora sono rilevanti anche le violazioni della liberazione per buona condotta. Quindi Benko ha provato a comparare le statistiche di Norvegia e USA utilizzando gli stessi criteri per entrambi i paesi e ha ottenuto un dato di recidiva sorprendentemente simile: 25 per cento in Norvegia, 28,8 per cento negli Stati Uniti d’America.
Ma per Kristoffersen è pressoché impossibile comparare l’efficacia dei programmi di reintegrazione, in particolare quella di Halden: le statistiche di recidiva norvegesi, infatti, sono divise in base alla prigione di rilascio; quasi nessun prigioniero, però, è liberato direttamente da un carcere di massima sicurezza, perciò non esistono dati di recidiva per Halden: «Bisogna fare attenzione perché c’è un tipo di errore logico che capita di frequente quando si parla di queste cose, ma non bisognerebbe mescolare due tipi di principi diversi. Uno è: Come si combatte il crimine? Come si riduce la recidiva? Mentre l’altro è: Quali sono i principi di umanità su cui si vuole basare il proprio sistema? Si tratta di due domande diverse». Riguardano tutta la comunità dei cittadini, ma di volta in volta quelli che sono detenuti oppure gli altri. Kristoffersen ha continuato dicendo: «A noi piace pensare che trattare i detenuti con gentilezza, con umanità contribuisca alla loro riabilitazione. Ma ci sono scarse prove scientifiche a sostenere che trattare le persone con gentilezza le dissuaderà dal commettere nuovi crimini. Molto scarse». Poi ha aggiunto «Però se tratti male le persone, questo si riflette anche su di te».
Kristoffersen ha raccontato a Benko che durante i corsi di formazione, alle guardie carcerarie viene spiegato che trattare i detenuti con umanità è qualcosa che dovrebbero fare non per i detenuti, ma per se stessi. Questa teoria si basa sull’idea che insegnare agli agenti penitenziari a essere duri, violenti e sospettosi avrà conseguenze sulla loro vita, sull’immagine che hanno di se stessi, sulle loro famiglie e persino sui sentimenti e atteggiamenti dell’intera Norvegia. Kristoffersen ha chiuso il suo discorso con una citazione in genere attribuita allo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: “Il grado di civiltà di una società può essere valutato entrando in una delle sue prigioni”.
Benko scrive di aver sentito la stessa frase poco prima di lasciare il carcere, pronunciata dal direttore di Halden Are Hoidal: che si è detto orgoglioso che le persone vogliano lavorare nella prigione che gestisce e la giornalista conferma che tutti gli addetti di Halden che ha incontrato si sono dichiarati entusiasti di “fare la differenza”. «Rendono possibili dei grandi cambiamenti» ha detto Hoidal riferendosi ai dipendenti di Halden. E ha aggiunto: «Ho il miglior lavoro del mondo».