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  • Domenica 2 maggio 2010

Halden, il carcere più umano del mondo

«Vogliamo ricostruirli, dar loro sicurezza attraverso l’educazione e il lavoro e farli diventare persone migliori per quando dovranno uscire»

Della nuova e rivoluzionaria prigione di Halden in Norvegia, aperta lo scorso 8 aprile, si era parlato in tutto il mondo con la superficialità e la demagogia tipica degli approcci giornalistici a questo tema: “prigione a cinque stelle”.

Il nuovo Time invece racconta in maniera più attenta e curiosa l’esperimento: capire se sia possibile migliorare il funzionamento delle carceri e dell’applicazione delle pene dovrebbe essere una priorità per le nostre società. Ne scrive William Lee Adams: “Uno sguardo sulla prigione più umana del mondo”.

All’inaugurazione di Halden è intervenuto il re di Norvegia Harald quinto, accolto da un’esecuzione corale di “We are the world” da parte degli agenti penitenziari. Il carcere è costato quasi duecento milioni di euro e il lavoro di dieci anni. Si trova fuori della città, a sudest di Oslo ed è il secondo per capienza in tutta la Norvegia: può ospitare 252 detenuti. La novità che ha eccitato i cronisti di mezzo mondo è la presenza di uno studio di registrazione, percorsi da jogging, una cucina comune e una foresteria per i parenti che si fermino in visita ai detenuti. “Il sistema carcerario norvegese è basato sul rispetto e sui diritti umani”, spiega il direttore a Time, che aggiunge: “A noi non pare una cosa tanto strana”. Il principio, spiega l’articolo, è che le carceri punitive e repressive non funzionino e che il famoso “reinserimento nella società” dei detenuti abbia maggiori possibilità se questi vengono trattati umanamente. In Italia fior di osservatori ne sogghignerebbero, e intanto vivono in un paese con grossissimi problemi di giustizia e preseguimento della criminalità, per non parlare del resto.

Le celle hanno la tv e il frigorifero (nelle carceri italiane, l’assenza di un frigorifero genera complicate e dispendiose organizzazioni delle diete e dei pasti). L’architetto Henrik Hoilund, uno dei progettisti della struttura, spiega il senso delle scelte estetiche che sono state ridicolizzate dalla stampa internazionale (anche il muro di cinta è occultato dagli alberi ed è privo di accessori minacciosi.):

“La cosa più imporante è che il carcere somigli più possibile al mondo esterno”

È una vecchia questione, quella della pigra abitudine culturale che vuole le carceri punitive, anche a scapito del loro obiettivo prioritario: rendere le società più sicure e più sicura la vita di tutti i cittadini. Ci consoliamo del sapere “i cattivi” puniti, e ce li troviamo rapidamente più cattivi e pericolosi di prima.

“Quando arrivano, sono in un pessimo stato. Vogliamo ricostruirli, dar loro sicurezza attraverso l’educazione e il lavoro e farli diventare persone migliori per quando dovranno uscire”

Adams spiega che per quanto i confronti sulla recidiva tra i vari paesi non siano facili da condurre, “il modello norvegese sembra funzionare”. Nei due anni successivi al rilascio, solo il 20% dei detenuti ritorna in carcere: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (e in Italia) il tasso varia tra il 50% e il 60%. Certo, tutto è più facile se il tasso di criminalità è basso come in Norvegia e i detenuti sono appena 3300: 69 ogni 100mila abitanti (sono 753 negli USA, la quota più alta del mondo, e 110 in Italia).

Gli agenti di Halden non portano armi. Metà di loro sono donne, e questo si ritiene diminuisca l’aggressività tra i detenuti. L’articolo di Time si chiude senza nessuna ironia.