• Mondo
  • Mercoledì 11 febbraio 2015

Perché ebola non è più l’apocalisse

L'Economist spiega in cosa hanno sbagliato le previsioni sul virus, e a cosa sono servite (stavolta) le previsioni sbagliate

Gli ultimi aggiornamenti sull’epidemia di ebola in Africa occidentale diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) alla fine di gennaio sono incoraggianti e dicono che il numero di nuovi contagi causati dal virus sta diminuendo. La tendenza è sembrata proseguire a febbraio, giacché – come scrive l’Economist in questi giorni – nelle ultime tre settimane i nuovi casi in Guinea, Liberia e Sierra Leone sono stati circa 120 a settimana, il livello più basso dal luglio 2014.

Nonostante la fine dell’epidemia sembri più vicina, nell’ultima settimana il numero dei contagiati è tornato a salire, anche se non in maniera rapida come prima: l’OMS continua ad avere parecchie difficoltà a fermare completamente la diffusione di ebola. L’epidemia, iniziata nel villaggio di Meliandou, in Guinea, è la più ampia e grave di sempre: ha contagiato un totale di circa 22mila persone, uccidendone circa 9mila, ma non ha mai raggiunto i livelli più catastrofici, quasi apocalittici, annunciati dalle previsioni degli esperti. Nel settembre 2014, ad esempio, l’OMS prevedeva che a novembre i casi di contagio sarebbero stati 20mila, mentre nella realtà ne sono stati registrati circa 13mila.

A finire sulle prime pagine dei giornali sono stati però altri studi dello stesso periodo, spiega l’Economist: in particolare quello dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) statunitensi – organismi di controllo che hanno il compito di monitorare, prevenire e suggerire gli interventi più appropriati in caso di contagio diffuso ed epidemie – che, nel peggiore dei casi possibili (worst-case prediction), stimava che il 20 gennaio 2015 i contagiati da ebola avrebbero potuto essere fino a 1,4 milioni. Lo studio dei CDC presupponeva che la velocità di diffusione sarebbe rimasta costante e che solo il 40 per cento dei casi di contagio fosse noto, basando la stima sulla differenza tra il modello guida e il numero di casi trattati in un singolo giorno di agosto.

La realtà attuale è molto distante da queste previsioni, che si basavano su numeri incompleti e poco aggiornati, a loro volta inseriti all’interno di equazioni la cui variabile principale – la velocità con cui un caso d’infezione ne origina altri – non teneva conto degli interventi delle organizzazioni sanitarie e del cambiamento nei comportamenti della popolazione. Gli abitanti dei paesi colpiti, infatti, sono diventati progressivamente consapevoli dei rischi e hanno modificato i loro comportamenti: hanno per esempio cominciato a evitare il contatto fisico e a prendere maggiori precauzioni verso gli infetti o i morti. Nessuno studio aveva tenuto nella dovuta considerazione questi fattori o il cambio nei metodi di sepoltura dei cadaveri infetti, oggi ritenuto un elemento fondamentale nel controllo dell’epidemia: anzi questo tipo di comportamenti non è stato considerato dai modelli statistici degli epidemiologi, che non riuscendo a quantificare l’impatto di questi fattori – spiega l’Economist – spesso li escludono dai loro calcoli.

Le proiezioni più preoccupanti hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale e spinto organizzazioni internazionali e governi di molti paesi a prendere provvedimenti, inviando risorse e aiuti nelle zone colpite. Nell’ultima parte del 2014, l’attenzione nei confronti dell’epidemia è rimasta alta: nonostante a ottobre le statistiche avessero cominciato a stabilizzarsi mostrando un dato di circa mille nuovi casi a settimana, i rappresentanti della OMS continuavano a sostenere che il contagio avrebbe potuto peggiorare, arrivando a 10mila nuovi casi settimanali per la fine dell’anno.

Ora che i nuovi casi settimanali sono nell’ordine delle decine, i ricercatori che arrivano nei paesi colpiti per testare possibili cure stanno avendo difficoltà a trovare pazienti affetti da ebola: in Liberia una sperimentazione clinica è stata interrotta per mancanza di partecipanti e l’assenza di pazienti rischia di compromettere altri progetti simili, il cui obiettivo è trovare una cura al virus.
L’epidemia di ebola, insomma, ha raggiunto il suo picco prima che gli interventi internazionali arrivassero in massa nelle zone colpite e questo ritardo sta generando anche alcune polemiche negli Stati Uniti d’America, dove un articolo del Washington Post a gennaio mostrava che i centri per il trattamento del virus costruiti dagli Stati Uniti – risultato dell’intervento da 3mila militari e 750 milioni di dollari annunciato a settembre dal presidente Obama – erano quasi vuoti o addirittura non avevano mai trattato un paziente infetto.

Il tentativo dei CDC di stimare il numero di casi di ebola non rilevati ora sembra eccessivamente pessimista. A dicembre i ricercatori della Yale University hanno mostrato che il virus ebola tende a restare nell’ambito di piccoli gruppi sociali, cosa che lo rende più facile da individuare. [Gli studiosi] ritengono che per ciascun caso noto, meno di quelli che si pensavano sono rimasti non diagnosticati. Se ciò è vero, non solo i numeri alla base di molte proiezioni erano sbagliati, ma gli interventi tesi a isolare i casi sono stati molto più efficaci di quanto atteso. Altri studi hanno riscontrato che la probabilità di trasmissione del virus ebola da parte delle vittime era più elevata nelle fasi avanzate dell’infezione, dunque individuare i casi precocemente ha aumentato le probabilità d’interrompere la trasmissione. Ebola ha sfidato i profeti di sventura anche in altri modi. Non si è mai trasmesso attraverso l’aria e i suoi effetti economici sono stati meno dolorosi di quanto previsto. Avere torto di rado fa sentire così bene. Ma sarà più difficile richiamare l’attenzione del mondo la prossima volta.

(Nella foto lavoratori UNICEF ammassano “kit per la prevenzione scolastica delle infezioni” per fermare la diffusione di ebola nelle scuole, crediti John Moore/Getty Images)