“TFR in busta paga”: cosa vuol dire?

Cosa prevede la proposta approvata dal PD sulle liquidazioni, e cosa se ne dice

Durante la direzione nazionale del PD di lunedì è stato approvato l’ordine del giorno del segretario del partito e presidente del Consiglio Matteo Renzi: tra le altre cose, il testo dice che il TFR dal primo gennaio del 2015 «sarà nelle buste paghe a condizione che ci sia un protocollo tra Abi, Confindustria e governo (oltre a 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali) nella legge di stabilità».

Che cos’è il TFR, in breve
Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), quello che comunemente viene definita liquidazione o buonuscita, è una somma di denaro che viene data al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro finisce, per qualsiasi motivo. L’importo si basa su un accantonamento pari al 6,91 per cento della retribuzione annuale. La somma accantonata nel TFR viene rivalutata sulla base del tasso fisso dell’1,5 per cento, più una parte variabile legata all’indice ISTAT dei prezzi al consumo. Dal gennaio del 2007 i lavoratori dipendenti del settore privato possono scegliere se mantenere il TFR nella forma attuale (come dunque liquidazione) oppure se versarlo in un fondo pensione.

Alla fine del rapporto lavorativo, il TFR è corrisposto in un’unica soluzione o in due o tre rate, a seconda dell’importo. Dopo almeno otto anni di lavoro presso lo stesso datore, i lavoratori possono chiedere, solo per una volta, un’anticipazione del TFR per un importo che può arrivare fino al 70 per cento del totale. Esiste infine un Fondo di Garanzia nazionale al quale possono rivolgersi i lavoratori di imprese in stato di insolvenza o dichiarate fallite.

Cosa vuole fare il governo
Secondo quanto dichiarato da Renzi e riportato dai principali giornali – ma non ci sono ancora notizie molto precise al riguardo – il governo vorrebbe trasferire subito nella busta paga dei lavoratori il 50 per cento del TFR, e lasciare l’altra metà alle imprese fino alla fine del rapporto. Per fare un esempio, basandoci su quel poco che si sa: uno stipendio annuale di 24.000 euro lordi (corrispondenti a circa 1.300 euro netti mensili) produce un accantonamento mensile di circa 140 euro. Ogni mese quindi i lavoratori dipendenti riceverebbero in busta paga circa 70 euro in più, per un totale di circa quasi 1000 euro l’anno in più. L’ipotesi sul TFR è contenuta nel documento relativo alla prossima legge di stabilità, che dovrebbe contenere una manovra di circa 15 miliardi con cui il governo dovrebbe mantenere gli impegni presi (taglio all’IRAP, riforma della scuola, riordino degli ammortizzatori sociali legato al Jobs Act). La riforma del TFR, secondo il governo, farebbe aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori e rilanciare i consumi.

Non è ancora chiaro se e come le imprese verrebbero “compensate”, dato che alcune rischierebbero di andare così incontro a una crisi di liquidità: il TFR di chi non ha scelto un fondo pensione dopo la riforma (e cioè la maggior parte dei lavoratori privati) resta infatti nell’azienda che lo usa a sua volta per finanziarsi. Non è inoltre chiaro come questo anticipo sarebbe tassato, dato che sul TFR si paga un’aliquota fiscale agevolata, né se la somma andrebbe divisa per le tredici buste paga annuali oppure versata in una volta sola. Inoltre, scrive il Sole 24 Ore:

La misura per trasferire il 50% del TFR maturato annualmente in busta paga dovrebbe essere temporanea. Secondo l’ipotesi allo studio, durerebbe da uno fino a un massimo di tre anni. E inizialmente sarebbe adottata solo per i dipendenti privati. I lavoratori del settore pubblico sarebbero esclusi dall’intervento, almeno in prima battuta.

Cosa dicono le imprese 
Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha commentato dicendo che si tratta di una «manovra molto complessa»: nell’agosto del 2011 l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva ipotizzato questa stessa riforma, scartandola proprio perché troppo complicata. Giorgio Merletti, presidente di Rete Imprese Italia, ha detto che si tratta di una misura «impensabile: «Per i lavoratori il TFR è salario differito, per le imprese debito a lunga scadenza. Non si possono chiamare le imprese a indebitarsi per sostenere i consumi dei propri dipendenti».

La Stampa ha fatto un po’ di calcoli: l’ammontare totale annuo accumulato dagli italiani vale circa 24 miliardi (su 326 miliardi di retribuzioni). Di questi il 40 per cento circa matura nelle piccole e medie imprese: si tratta di 10,8 miliardi. Se metà della liquidazione venisse messa in busta paga, «nelle casse – già esauste – delle piccole imprese si creerebbe un buco da 5 miliardi e mezzo».

E per i lavoratori?
Alberto Brambilla, esperto di previdenza e sottosegretario al Welfare dal 2001 al 2005 nei governi Berlusconi – considerato vicino alla Lega – è stato intervistato dal Corriere e ha detto: «Così affossiamo il sistema dei fondi pensione che già in Italia non è decollato come in altri Paesi». Inoltre, ovviamente la parte del TFR ricevuta in busta paga andrebbe sottratta alla parte ricevuta a fine rapporto: potrebbe dare sollievo immediato, contribuendo al rilancio dei consumi, ma ridurrebbe lo stesso impatto sui consumi e la domanda rappresentato dal versamento finale del TFR. Come scrive la Stampa, «quei soldi non ci saranno più al momento del pensionamento. […] Finiremmo con lo spendere oggi le ricchezze di cui dovremmo disporre domani: è lo stesso meccanismo del tanto vituperato debito».

Foto: il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (Roberto Monaldo / LaPresse)