Il governo e il “Jobs Act”

Contratti, tutele, articolo 18: di cosa si sta discutendo in commissione al Senato e all'interno del Partito Democratico, spiegato

Il testo base sulla riforma del lavoro, il cosiddetto “Jobs Act”, è stato approvato il 18 settembre in commissione Lavoro del Senato. Il testo – un’iniziativa governativa del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti – contiene anche una modifica al famoso e discusso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che disciplina i licenziamenti senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti, e sulla quale c’è qualche dissenso all’interno del PD.

La discussione sulla delega del lavoro inizierà martedì 23 settembre al Senato. Lo strumento scelto per portare avanti la riforma è la legge delega: un documento votato dalle camere che non disciplina nel dettaglio la materia, ma che contiene una serie di principi e criteri direttivi entro i quali il governo è autorizzato a legiferare tramite uno strumento chiamato “decreto legislativo” o anche “decreto delegato”, che entra in vigore non appena viene approvato dal Consiglio dei ministri (pre­ve­de solo un pas­sag­gio consultivo alle com­mis­sioni com­pe­tenti, ma nessun voto in aula). L’obiettivo del governo è arrivare a un’approvazione della legge delega entro la fine di ottobre, per poi poter iniziare a scrivere i “decreti delegati” che completeranno la riforma. Il percorso potrebbe però essere complicato dal fatto che su alcune questioni ci sono all’interno del Partito Democratico posizioni differenti. «Se il Parlamento fa la delega, il governo eserciterà la delega. Se si impantana, potremmo agire con la decretazione d’urgenza», ha detto Renzi.

Il disegno di legge delega
Il disegno di legge delega (il numero 1428) sul lavoro si compone di sei articoli. Il primo riguarda gli ammortizzatori sociali (strumenti di sostegno a chi perde il lavoro); il secondo il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive (incentivi per l’occupazione); il terzo la semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese (a livello amministrativo); il quarto le tipologie contrattuali; il quinto la tutela della maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; il sesto parla dei tempi e delle modalità di adozione dei decreti delegati.

L’articolo più complicato è il numero 4, quello su cui si sono registrati i maggiori dissensi e le principali dichiarazioni di soddisfazione (secondo i punti di vista). Nel testo iniziale l’articolo 4 parlava «di riordino e semplificazione delle tipologie contrattuali esistenti» e dell’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti»: il contratto a tutele crescenti col passare del tempo era insomma solo una delle opzioni. L’articolo 4 è stato però interamente sostituito con l’emendamento 4.1000 del governo, che tra le altre cose dice:

b) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio;

c) revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento;

d) revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;

Il punto b apre di fatto la strada al superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che disciplina i licenziamenti senza giusta causa, ma anche i punti c e d introducono revisioni allo Statuto, in particolare all’articolo 4 e al 13: il primo articolo stabilisce il divieto delle tecniche di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori con telecamere e altre apparecchiature, il secondo prevede che il lavoratore sia «adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione». Il punto d della legge delega supera il divieto di controllo a distanza, il punto c introduce la possibilità di demansionamento del lavoratore in caso di necessità dell’azienda.

L’articolo 18
Quello che comunemente viene chiamato Statuto dei Lavoratori è la legge del 20 maggio 1970, numero 300, ed è l’insieme di norme «sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro». Lo Statuto comprende dunque buona parte delle regole più importanti per il diritto del lavoro in Italia sulle quali, negli anni, sono state costruite molte delle tipologie dei rapporti lavorativi.

L’articolo 18, in particolare, tutela i lavoratori e le lavoratrici assunti da imprese che hanno più di 15 dipendenti con contratti subordinati dai licenziamenti illegittimi. In pratica dice quali sono i diritti e i limiti per chi viene licenziato e fa richiesta al giudice per ottenere indietro il suo impiego, ritenendo di esser stato allontanato senza una giusta causa o un motivo giustificato. Una volta che il giudice stabilisce l’annullamento del licenziamento, ordina al datore di lavoro di rimettere il dipendente che aveva licenziato al suo posto nelle medesime condizioni, anche economiche, precedenti al licenziamento. L’articolo 18 prevede anche alcune compensazioni per il danno subito dal lavoratore licenziato e successivamente reintegrato, di norma pari ai soldi che il lavoratore avrebbe ricevuto attraverso il suo stipendio se non fosse stato licenziato. Dopo che ha ottenuto il reintegro, il lavoratore ha comunque il diritto di non rientrare in azienda e di chiedere in cambio una indennità. Questa possibilità è stata pensata per consentire al lavoratore di risolvere comunque il rapporto di lavoro, evitando di dover tornare in un ambiente che potrebbe essere ostile (l’indennità deve essere pari a quindici mesi di stipendio).

Con la riforma Fornero del 2012 sono state introdotte delle modifiche sia nella procedura che precedeva il licenziamento (riducendo i tempi per rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione), sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico). Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio restava valido quanto stabilito dallo Statuto dei Lavoratori; in caso di licenziamento disciplinare la riforma stabiliva un risarcimento inferiore (passando da 15 a 12 mensilità) e cancellava l’obbligo di reintegro; la stessa cosa valeva in caso di licenziamento economico, giustificato cioè con la situazione economica dell’azienda. Il licenziamento ingiustificato – economico o disciplinare – manifestamente fondato su dati falsi determina comunque il reintegro, anche con la riforma Fornero.

Chi è contrario al superamento dell’articolo 18 fa notare come nessuna di queste norme stabilisca e dovrebbe stabilire un vero ostacolo all’assunzione di un lavoratore, tanto che gli imprenditori sono soliti fare altre richieste al governo, specialmente riguardo le tasse e il costo del lavoro per le imprese (si tratta insomma di una garanzia contro le discriminazioni dei lavoratori); chi è favorevole fa notare che queste norme già oggi si applicano a un numero sempre minore di lavoratori, che diventa una grande minoranza irrilevante se si tengono in considerazione i giovani e i neo-assunti, mentre un contratto a tutele crescenti darebbe fin dall’inizio qualche protezione in più rispetto alle forme contrattuali più diffuse tra i giovani lavoratori (contratti a termine, contratti a progetto, contratti di collaborazione, partite IVA, eccetera), nonché la certezza della crescita di quelle tutele nel tempo. Ma del contratto a tutele crescenti proposto dal governo si sa ancora poco.

L’emendamento di Renzi sul contratto a tutela progressiva
La nuova legge delega del governo parla dell’introduzione di un “contratto indeterminato a tutele crescenti”, un contratto unico che preveda che le tutele aumentino gradualmente con il passare del tempo. Il testo non dice molto di più: i termini della gradualità saranno indicati nei decreti delegati. Sull’articolo 18, il ministro Poletti ha detto: «Quando faremo i decreti attuativi prenderemo una decisione». Maurizio Sacconi però – senatore di Forza Italia, relatore del provvedimento e presidente della commissione Lavoro del Senato – ha detto che «con la delega c’è la revisione delle tutele nel contratto a tempo indeterminato» per cui si prevedono tutele crescenti, ma senza il reintegro previsto dall’articolo 18. Nella legge delega non ci sono insomma rassicurazioni per quanto riguarda articolo 18 e reintegro.

Per questi motivi il testo è stato giudicato piuttosto ambiguo e criticato dai sindacati, dalle opposizioni (SEL e M5S) e anche dalla minoranza del Partito Democratico. Hanno espresso forti perplessità Stefano Fassina, Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Pierluigi Bersani e Rosy Bindi, tra gli altri, dicendo che «il governo deve chiarire quali sono i contenuti precisi, perché l’emendamento che è stato presentato, sulla carta, lascia aperta qualsiasi interpretazione» (la dichiarazione è di Bersani, ma riassume le posizioni di tutti). Ma ha fatto discutere soprattutto un tweet di Matteo Orfini, già avversario di Renzi ma oggi considerato a lui più vicino, soprattutto da quando è stato eletto presidente del Partito Democratico:

 

In un’intervista pubblicata oggi dal Manifesto, Orfini ha spiegato che «riscri­vere l’art. 18, come dice Renzi, è una sfida da rac­co­gliere», ma aggiunge che «l’emendamento del governo fini­sce nella direzione oppo­sta. Biso­gna cor­reg­egre l’impostazione». Ancora:

«Bisogna disbo­scare la fore­sta di con­tratti pre­cari. Nella delega que­sto non c’è ma Renzi l’aveva annun­ciato. Biso­gna sem­pli­fi­care, limi­tarsi agli stru­menti essen­ziali: il tempo determinato e quello inde­ter­mi­nato. Poi pos­siamo discu­tere della pro­gres­si­vità delle tutele, come pre­vi­sto dalla delega. Dob­biamo can­cel­lare cose molto sgra­de­voli come il demansiona­mento e i con­trolli a distanza, che pro­du­cono una tor­sione auto­ri­ta­ria nei luo­ghi di lavoro. Potremmo inse­rire la legge sulle dimis­sioni in bianco impan­ta­nata al Senato. E sarebbe bene affian­care una legge sulla rap­pre­sen­tanza sin­da­cale. Comun­que non può essere messo in discus­sione il rein­te­gro per il licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio, è un prin­ci­pio irrinunciabile».

Tra chi critica la legge all’interno del PD ci sono insomma posizioni favorevoli a un contratto unico a tutele progressive, purché il tempo della loro introduzione sia ridotto e che alla fine della progressività – una sorta di “periodo di prova” che congela per esempio le tutele legate all’articolo 18, eccetto quelle dei licenziamenti discriminatori – si arrivi ad avere un contratto a tempo indeterminato che preveda le medesime tutele di adesso, articolo 18 compreso. Si tratterebbe insomma della proposta degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi più che di quella di Pietro Ichino, che sostiene invece che nessuna delle protezioni essenziali “sia inamovibile”.

I leader dei principali sindacati hanno detto di essere disponibili a discutere del cosiddetto “modello Boeri”, ponendo però molte condizioni. Susanna Camusso della CGIL ha detto: «un contratto a tutele crescenti e progressive se si tolgono di mezzo le mille fattispecie precarie va bene». Due giorni fa Maurizio Landini della FIOM, in un’intervista su Repubblica, a proposito del contratto a tutele progressive diceva:

«Io penso che sia una proposta che vale la pena di essere discussa. Ma, appunto, devono essere tutele. Se io abolisco un diritto, le tutele diventano regressive. Se in fondo a un periodo di precarietà del contratto c’è l’arbitrio dell’azienda che ti può licenziare senza motivo, mi devono spiegare dove stanno le tutele progressive».

Nelle ultime ore, nel dibattito è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano («In questo paese che amiamo, non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie» ha detto parlando alla cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale) e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi: l’articolo 18 «è un mantra da smontare». Oggi, martedì 23 settembre, la minoranza del PD di Camera e Senato si riunirà per discutere della legge delega: l’intenzione sarebbe quella di insistere sulle modifiche che riguardano la possibilità di reintegro per il lavoratore. Se il dissenso non dovesse rientrare, il governo potrebbe non avere una maggioranza al momento del voto oppure potrebbe ottenerla, ma con i voti di Forza Italia. In entrambi i casi, scrivono i oggi diversi quotidiani, ci sarebbero comunque delle conseguenze politiche.