• Mondo
  • Venerdì 8 agosto 2014

È davvero il caso di rimpatriare i malati di ebola?

Sì, spiegano dall'ospedale che sta seguendo i due casi statunitensi: perché è importante per tutti e perché se lo meritano

di Susan M. Grant - The Washington Post

ATLANTA, GA - AUGUST 1: Exterior of the Emory University Hospital on August 1, 2014 in Atlanta, Georgia. Officials with the hospital confirmed that Emory University Hospital will be receiving and treating two American patients diagnosed with Ebola virus. The Ebola infected patients will be transported to Emory University Hospital from Liberia in the next couple of days and receive supportive care in a isolation unit separate from the general hospital. (Photo by Jessica McGowan/Getty Images)
ATLANTA, GA - AUGUST 1: Exterior of the Emory University Hospital on August 1, 2014 in Atlanta, Georgia. Officials with the hospital confirmed that Emory University Hospital will be receiving and treating two American patients diagnosed with Ebola virus. The Ebola infected patients will be transported to Emory University Hospital from Liberia in the next couple of days and receive supportive care in a isolation unit separate from the general hospital. (Photo by Jessica McGowan/Getty Images)

Susan M. Grant è il capo degli infermieri dell’ospedale della Emory University di Atlanta, in Georgia: è l’ospedale che ha in cura i due pazienti statunitensi che hanno contratto l’ebola in Africa, Nancy Writebol e Kent Brantly. I suoi argomenti riguardano da vicino anche noi: ieri un cooperante spagnolo malato di ebola è arrivato a Madrid.

Un secondo cittadino americano che ha contratto il virus ebola è arrivato dall’Africa martedì scorso all’ospedale della Emory University, dopo che un altro paziente era arrivato lo scorso weekend. Entrambi sono stati accolti da un gruppo di medici e infermiere altamente qualificati, da un’unità specializzata in isolamento, da un esteso interesse dei media e da una valanga di reazioni nell’opinione pubblica. La gente ha reagito in maniera viscerale sui social network, temendo che questo fatto potesse portare a una diffusione del virus negli Stati Uniti.

Queste paure sono infondate, e descrivono una certa ignoranza nei confronti dell’ebola e nelle nostre capacità di contenerlo e gestirlo in sicurezza. L’ospedale della Emory University ha un reparto specifico per questo genere di pazienti con patologie altamente infettive, e il nostro staff è scrupolosamente istruito riguardo i protocolli e le procedure di controllo dell’infezione. Oltre a questo, però, l’allarme degli ultimi giorni fa perdere di vista la missione fondamentale del sistema sanitario degli Stati Uniti. L’obiettivo di ogni ospedale è prendersi cura dei malati e compiere progressi in materia di conoscenza della salute delle persone. Da noi, all’Emory, la ricerca, la dedizione e l’attenzione alla qualità del servizio – tutto quello che facciamo, insomma – servono a essere preparati per casi come questi.

Inoltre, si dà il caso che gli americani traggano beneficio da quello che impariamo curando questi pazienti (a causa di una legge federale l’Emory non può rivelare il nome dei propri pazienti, né altre informazioni che possano portare a una loro identificazione). L’ebola non diventerà una minaccia a causa della presenza di questi pazienti nella nostra clinica, ma le informazioni che otteniamo curando queste persone ci preparano per affrontare al meglio patologie che potrebbero diffondersi negli Stati Uniti in futuro. Saremo anche in grado di condividere le nostre nuove conoscenze con il resto del mondo. Questo agente patogeno è parte del nostro mondo: se vogliamo impedire che questi virus potenzialmente mortali arrivino fino alle nostre coste senza controlli abbiamo il dovere di contribuire alla ricerca mondiale. Nel mondo di oggi non esiste che una certa patologia rimanga contenuta in una sola città, una sola nazione o in un solo continente.

Cosa più importante, ci stiamo prendendo cura di questi pazienti perché è la cosa giusta da fare. Questi cittadini americani sono generosamente andati in Africa nell’ambito di una missione umanitaria per aiutare a combattere una malattia che risulta tanto più mortale nei paesi privi di strutture sanitarie paragonabili alle nostre. Si meritano un identico altruismo da parte nostra. Rifiutare di curare queste persone solleverebbe gigantesche domande riguardo il fondamento etico della nostra professione. Hanno il diritto di tornare a casa loro per essere curati in modo sicuro ed efficace.

foto: Jessica McGowan/Getty Images

©Washington Post 2014