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  • Venerdì 18 luglio 2014

Il centenario di Gino Bartali

La storia e le foto del leggendario ciclista italiano, nato il 18 luglio del 1914: e perché è sempre stato "quello vecchio"

Gino Bartali festeggiato a Milano dopo aver vinto il Giro d'Italia, 7 luglio 1946
(© LAPRESSE)
Gino Bartali festeggiato a Milano dopo aver vinto il Giro d'Italia, 7 luglio 1946 (© LAPRESSE)

Oggi è il centenario della nascita di Gino Bartali, uno dei più importanti ciclisti italiani di sempre, vincitore di tre Giri d’Italia e due Tour de France. Giovanni Fontana – tra le altre cose, blogger del Post – ne ha scritto per Undici un bel ritratto, in cui racconta il suo modo di correre “istintivo e intimo”, il carattere “scorbutico, scontroso, brontolone” ma “vicino alla gente per farla felice” o “per prendersi a male parole”, il rapporto con la politica e la fede, e come aiutò molti ebrei a salvarsi durante la Seconda guerra mondiale.

Vecchio

Non è strano immaginare che Bartali abbia cent’anni, in fondo li ha sempre avuti. Era nato il 18 luglio del 1914, vicino a Firenze, ed è sempre stato quello vecchio. Era più vecchio di Coppi, di quei cinque anni che bastano a fare dell’uno il giovane e talentuoso gregario, e dell’altro l’anziano e affermato capitano, senza neanche il bisogno di spiegare come va a finire la storia. Nonostante questo, Bartali sopravvisse a Coppi per quarant’anni: Coppi non fu mai vecchio, Bartali arrivò al nuovo millennio. Questo lo condannò a essere il narratore e la memoria storica di quella rivalità, simbolo di un ciclismo e di un mondo che non c’è più.
La sua immagine di corridore è quella di un grande campione che ha superato la trentina, stempiato e brontolone, al quale la Seconda Guerra Mondiale ha tolto gli anni migliori della carriera. L’unico record assoluto che Bartali possiede è uno di longevità: è l’unico ciclista ad aver vinto il Tour de France a 10 anni di distanza. Era soprannominato dalla stampa «l’Intramontabile», mentre in gruppo era semplicemente il «vecchio». La guerra come ladra della gioventù è un topos diffuso, ma in questo caso l’ultima guerra mondiale è anche un crinale oltre il quale è difficile spingere l’immaginazione, quello che separa la fine del “Ciclismo eroico” e l’inizio di quello contemporaneo.

Non è nell’anagrafe che si esaurisce questa spirito arcaico: Bartali è parte di un’Italia più rurale, antica e in estinzione. Curzio Malaparte scrive nel 1949: «Bartali è il campione di un mondo già scomparso, il sopravvissuto di una civiltà che la guerra ha ucciso: egli rappresenta quel romanticismo inquieto e inquietante che ha raggiunto l’apice fra le due guerre e perpetua nel mondo moderno lo spirito eroico della vecchia Europa. Coppi […] rappresenta lo spirito razionale, scientifico […]. In Bartali, nato da una famiglia di agricoltori toscani, prevale il contadino, con la sua mistica elementare, la sua fede in Dio, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra».

Eppure

Eppure uno cerca i contrari della parola “vecchio” e trova: gagliardo, giovane, giovanile, vitale, vivace, vivo. Tutte cose che è facile riconoscere in Bartali, e che ha conservato – a ovvia eccezione del “giovane” – fino alla sua morte. Sono l’opposto delle “caratteristiche psicologiche della vecchiaia”, dice la Treccani, e in effetti basta riprendere il discorso precedente da un’angolazione diversa per ribaltare la descrizione. Bartali è spontaneo, focoso, ha la vitalità del chiacchierone e una vis polemica che conserverà, poco ammaestrata, negli anni. Quando una volta, nel Giro d’Italia del ’47, un tifoso gli grida «falso prete!», lui ferma la bici, gli tira un ceffone, e riparte. La dicotomia tracciata da Malaparte si conclude così: «l’aspetto umano è più sviluppato in Bartali che in Coppi. Bartali è un uomo, Coppi un robot».

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