Far lavorare le donne italiane

Nel senso di permetterglielo, con quattro idee più una esposte oggi sul Corriere

circa 1939: Two women checking FA cup final tickets at Messrs Waterlow's printing works in Finsbury, London. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
circa 1939: Two women checking FA cup final tickets at Messrs Waterlow's printing works in Finsbury, London. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

Dopo la pubblicazione del rapporto 2014 dell’ISTAT «La situazione del Paese» (da cui emerge una bassa occupazione femminile, una bassa natalità e un sistema di welfare “privato” gestito principalmente dalle donne), sul Corriere della Sera di oggi ci si chiede come far diventare l’Italia un paese che metta al centro la questione femminile. Cioè un paese che renda possibile e conveniente alle donne – e alle donne che hanno dei figli–  lavorare. Le proposte principali sono quattro, più una.

I dati diffusi dall’Istat confermano che l’Italia non è un Paese per donne. Le culle restano vuote, le più vuote d’Europa. E la partecipazione al mercato del lavoro non decolla: meno di una donna su due ha un impiego. Con un tasso di occupazione femminile del 46,6 per cento siamo il penultimo Paese del Continente, davanti soltanto a Malta. Come ci ha rimproverato qualche settimana fa il direttore del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, siamo «uno dei Paesi che incoraggiano di meno la partecipazione delle donne al lavoro». Una donna su due, dopo il primo figlio, alza bandiera bianca e lascia la fabbrica o l’ufficio.

È questa una scommessa persa non solo per le donne — perché tutte le volte che leggiamo una statistica sul fatto che non facciamo più figli ci giriamo a guardare solo dalla parte delle donne? — ma per tutto il Paese. Si calcola, infatti, che se ci allineassimo agli standard europei, il nostro Pil aumenterebbe di sei o sette punti percentuali. E forse anche le nostre culle resterebbero meno vuote. Perché non è più vero che ci sia un nesso negativo fra tasso di fecondità e tasso di impiego. Vale semmai l’opposto: le donne francesi sono in cima alla classifica europea per numero di figli (un paio a testa, contro una media Ue di uno e mezzo e il record negativo italiano di 1,3) e il loro tasso di impiego è sensibilmente più alto che da noi (sfiora il 60 per cento).

Certo, loro possono contare su una serie di misure (in primis il celeberrimo sistema di nidi) che aiutano la conciliazione fra vita professionale e famiglia. Mentre da noi solo 10 bambini su 100 nella fascia d’età fra zero e due anni trovano posto negli asili pubblici. Il problema è che finora gli interventi a sostegno della maternità sono stati pensati prevalentemente come aiuti alle famiglie deboli, ai redditi bassi, come welfare anti-povertà, senza un vero e proprio riconoscimento del valore sociale della maternità in generale. Né tantomeno del valore del lavoro femminile.

E così finisce che a molte donne lavorare non conviene: senza reti familiari (per trovare un impiego spesso bisogna essere disposti a spostarsi da casa e andare dove il mercato chiama) e prive di strutture pubbliche di sostegno (non solo per l’accudimento dei più piccoli ma anche per la cura degli anziani che, tradizionalmente in Italia, è in capo alle figlie o alle nuore), lavorare diventa, paradossalmente, non una fonte di guadagno ma un costo personale, e anche economico, insostenibile. Uno studio riportato oggi sul Corriere dimostra come nelle aziende italiane siano ormai tramontati i vecchi pregiudizi sulle donne ma permanga un’organizzazione rigidissima del lavoro che spesso le costringe a rinunciare quando fanno un figlio. Alcuni progressi sono stati fatti in termini di incentivi fiscali alle aziende che assumono donne dopo la maternità, ma le politiche sulla conciliazione lavoro-famiglia restano molto indietro. Il Nord e il Sud poi ci raccontano due realtà completamente diverse con una qualità dei servizi molto distante e punte di inefficienza inaccettabili come il caso della chiusura lo scorso anno dell’ultimo asilo rimasto a Reggio Calabria.

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