I discorsi sugli insulti, le minacce e le aggressioni su Internet sono ricorrenti da mesi in molte parti del mondo, con articoli che interpretano il fenomeno da diversi punti di vista e in diversi modi, offrendo soluzioni e proposte di diverso tipo. C’è una questione però che viene spesso messa da parte, o comunque non trattata con la stessa attenzione: quando il soggetto preso di mira è una donna, l’offesa o la minaccia hanno immediatamente una declinazione di genere. L’occasione del conflitto politico o d’opinione viene colta spesso per esprimere odio misogino e sessista. Un esempio recente e italiano per capire di cosa parliamo: nei commenti al noto post di Beppe Grillo contro la giornalista dell’Unità Maria Novella Oppo – attaccata perché politicamente ostile al Movimento 5 Stelle – si trovavano epiteti come “cessa”, “baldracca”, “racchia”, “ammoscia cazzi”, “cagna”, “zoccola”, “carta da culo”, “troia”, “succhia cazzi” e così via.
Il tema – di cui giornaliste e femministe di tutto il mondo si occupano da tempo con insistenza – è stato recentemente riproposto dalla giornalista statunitense Amanda Hess in un lungo e discusso articolo sul Pacific Standard intitolato: “Perché le donne non sono le benvenute su Internet”. La tesi di fondo la esprime nelle prime cinque righe:
“Ignorate la raffica di minacce violente e messaggi molesti con cui vi confrontate ogni giorno online”. Questo è quello che si dice alle donne che usano la Rete. Ma questi messaggi senza fine sono un attacco alla carriera delle donne, alla loro resistenza psicologica e alla loro libertà di vivere online. Fin qui abbiamo inteso le molestie su Internet in un modo tutto sbagliato.
La Rete non è Fantasyland
Amanda Hess è molto attiva sui social network e nei suoi articoli si occupa spesso di temi legati alle donne e alla sessualità. Nell’articolo sulle molestie online comincia raccontando una cosa che le è successa. Si trovava in vacanza a Palm Springs, quando alle 5.30 del mattino ricevette una telefonata: era un’amica che la avvisava di un account Twitter che sembrava essere «creato con lo scopo» di inviarle «minacce di morte».
Mi trascinai giù dal letto e aprii il portatile. Qualche ora più tardi, qualcuno con lo pseudonimo “headlessfemalepig” [maialasenzatesta] mi aveva mandato sette tweet. “Vedo che fisicamente non sei molto attraente, lo avevo capito”, diceva il primo. Poi: “Succhi un sacco di uccelli di ubriachi e tossicodipendenti.” Poiché sono una giornalista che scrive anche di sesso (tra le altre cose) nessuna di queste frasi era per me particolarmente fuori dall’ordinario. Ma questo ragazzo passò a un altro livello: “Ho 36 anni, ne ho fatti 12 di prigione per omicidio, ho ucciso una donna che come te prendeva in giro gli uccelli degli uomini”. Ancora: “Sono felice di dirti che viviamo nello stesso stato. Ti sto cercando, e quando ti troverò ti violenterò e ti staccherò la testa.” Ce n’erano altri, ma il tweet finale sintetizzava bene: “Stai per morire e io sono colui che ti ucciderà. Te lo prometto”.
Amanda Hess racconta anche la sua reazione: “Mi sentivo disorientata e terrorizzata. Poi imbarazzata per avere paura e infine ero incazzata”. Decise dunque di chiamare la polizia e due ore più tardi arrivò un agente nella sua camera d’albergo.
Diedi le informazioni più rilevanti: sono una giornalista; vivo a Los Angeles; a volte alle persone non piace quello che scrivo sulle donne, le relazioni o la sessualità, questa non è la prima volta che qualcuno reagisce al mio lavoro minacciando di stuprarmi e uccidermi. Il poliziotto mise le mani sulla cintura, mi guardò negli occhi e chiese: “Cos’è Twitter?”
Il racconto serve ad Amanda Hess come esempio di un primo grave errore che si commette quando ci si trova di fronte a quello che definisce “cyber-sessismo”: considerare la rete come «una specie di “Fantasyland”», tesi che ha almeno due conseguenze reali sulla vita delle donne che usano Internet.
Ignorare o gioire
Il fenomeno, spiega Amanda Hess, è talmente cresciuto e si è a tal punto diffuso da aver generato un paradosso: quello di non essere più considerato importante. È parte del panorama, meglio ignorarlo e non farci caso. Conseguenza, secondo Hess: l’opinione diffusa è che chi esprime un allarme «è solo uno sciocco». I giornalisti (e le giornaliste) che prendono sul serio le minacce di morte «danno spesso l’impressione che questo sia un qualche tipo di evento sconvolgente per il quale dovremmo provare pietà per le vittime», ha scritto ad esempio Jim Pagels su Slate, aggiungendo che «chi ha trascorso 10 minuti online sa bene che queste affermazioni sono completamente innocue». Jen Doll su Atlantic Wire ha scritto che «la vecchia tattica di ignorare i rompiscatole, quella che la tua mamma ti ha insegnato, potrebbe essere la migliore per tutti». Non bisogna insomma cadere nella trappola. E c’è anche chi sostiene che le molestie online sono il segnale (positivo) di quanto le donne siano arrivate lontano, di quanto siano pubblicate, lette su Internet e dunque influenti.
Il risultato è che le donne che subiscono molestie online si trovano dunque di fronte a due possibilità: fare finta di niente e subire in silenzio questa violenza o sentirsi lusingate. Invece, spiega Amanda Hess, questo tipo di minacce e il loro enorme volume hanno gravi implicazioni per le donne: nella vita reale e nella loro vita su Internet.
Le minacce di stupro, di morte, e lo stalking possono sopraffare e restringere la nostra emotività, oltre a farci perdere tempo e soldi in attività investigative online. Ho passato ore e ore negli ultimi quattro anni a registrare l’attività online di un cyberstalker particolarmente impegnato, per ogni evenienza. E dato che Internet diventa sempre più centrale nell’esperienza umana, le capacità delle donne di vivere e lavorare liberamente online potranno essere sempre più influenzate e troppo spesso limitate.
Denunciare
Proseguendo nel suo racconto, Amanda Hess scrive che la prima volta in cui denunciò una minaccia di stupro alla polizia, nel 2009, l’agente inviato a casa sua chiese: «Perché qualcuno dovrebbe prendersi il disturbo di fare una cosa come questa?». E il poliziotto di Palm Springs della denuncia più recente le disse: «Questo tizio potrebbe essere seduto in una cantina del Nebraska, per quel che ne sappiamo noi». Il fatto che il suo stalker avesse detto di vivere nel suo stesso stato, e che avesse intenzione di scoprire dove lei abitasse, venne scartato «come la solita sciocchezza scritta online». Pensare la Rete come qualcosa che non ha alcun contatto o impatto con la realtà ha come conseguenza anche il fatto che le minacce online non sono considerate nel modo corretto da parte di chi dovrebbe attivarsi per svolgere le indagini.
Chi abusa tende a farlo anonimamente o sotto pseudonimo. Ma le donne che costoro prendono a bersaglio spesso scrivono su piattaforme professionali, con i loro veri nomi e nel contesto delle loro vite reali. Le vittime non hanno il lusso di poter separare se stesse dal reato. (…) Nathan Jurgenson (un noto sociologo ed esperto di Internet dell’Università del Maryland) dice: “per la persona che ha fatto la minaccia e per la persona che sta indagando su di essa, è molto più facile e comodo credere che quel che accade su internet non sia reale”.
Internet è una rete globale, scrive Hess, ma quando si prende in mano il telefono per denunciare una minaccia online «che vi troviate a Londra o a Palm Springs, finirete faccia a faccia con un poliziotto locale» – che molto probabilmente sarà un uomo e prenderà appunti «con carta e penna». Naturalmente, precisa Hess, alcune persone sono indagate e perseguite per cyberstalking, ma dalla sua esperienza e da quella di altri casi simili al suo risulta che le forze dell’ordine abbiano una scarsa capacità di indagare sulle minacce e quindi, di conseguenza, di intervenire.
A Jessica Valenti, scrittrice femminista e fondatrice del blog Feministing, a fronte di una serie di minacce di morte ricevute nella sua e-mail, l’FBI consigliò di lasciare il suo appartamento, di non camminare per strada da sola e di monitorare tutte le persone di sesso maschile che si presentavano più volte nei dintorni della sua casa: «Un’indicazione completamente impossibile da realizzare». Alla giornalista di Time Catherine Mayer fu consigliato di «prendersi una pausa da Twitter». Secondo i dati del Pew Research Center, dal 2000 al 2005 la percentuale di utenti che partecipano a chat online e a gruppi di discussione su Internet è scesa dal 28 al 17 per cento e «per molte donne non si è trattato di una vera e propria scelta».