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  • Venerdì 22 novembre 2013

Il giorno che Johnson diventò presidente

La gran storia dell'altra persona la cui vita fu sconvolta il 22 novembre 1963: arrivò a Dallas da politico fallito, depresso e finito, se ne andò da uomo più potente del mondo

di Francesco Costa – @francescocosta

(AP Photo/White House, Cecil Stoughton)
(AP Photo/White House, Cecil Stoughton)

La mattina del 22 novembre 1963, Lyndon Johnson era al capolinea. Il giorno prima, a San Antonio, era stato umiliato da un senatore del Texas, Ralph Yarborough, che si era platealmente rifiutato di salire in macchina con lui nel corteo presidenziale: Yarborough era il leader di una corrente di sinistra del partito democratico e aveva sfidato apertamente il governatore Connally, vicino a Johnson. Secondo molti la spaccatura nel partito rischiava di compromettere la vittoria di Kennedy in Texas nelle elezioni presidenziali dell’anno successivo. Johnson era il vicepresidente ed era texano: in teoria nessuno meglio di lui avrebbe potuto ricomporre la situazione, ma il primo tentativo fu un disastro.

La mattina del 22 novembre 1963, i giornali che Lyndon Johnson stava sfogliando in albergo avevano dei gran titoloni: non parlavano del presidente Kennedy, che stava proseguendo la visita in Texas organizzata per tentare di risolvere la disputa e prepararsi alla campagna elettorale, ma di lui. Il Dallas Morning News titolava “Yarborough snobba Johnson”. Su un altro giornale c’era un titolo ancora più pesante: “Nixon: Kennedy mollerà Johnson”. La tesi circolava molto persino prima dell’umiliazione di San Antonio. In molti pensavano che Johnson, scelto da Kennedy come vice nonostante un rapporto personale non eccezionale, fosse ormai un peso morto: era stato imbarcato per via del suo consenso negli stati del sud e ora in quegli stati del sud stava creando problemi, invece che risolverne. Come se non bastasse, una commissione d’inchiesta del Congresso stava indagando sulle spese sospette di uno stretto collaboratore di Johnson, sospettato di aver compiuto illeciti per finanziare la sua attività politica. Anche su questo erano già arrivati i giornali: sempre quella settimana uscì su Life un lungo articolo intitolato “Lo scandalo Johnson continua a crescere a Washington”.

Lyndon Johnson aveva 55 anni. A 29 anni era stato eletto deputato, a 42 senatore, a 48 era il capo della maggioranza democratica al Senato: uno degli incarichi più importanti e influenti al Congresso. Era un tipo pacato che non sorrideva molto, ma non era di carattere debole – era freddo, controllato, con una presenza carismatica. Si candidò alle primarie presidenziali democratiche del 1960: non ottenne abbastanza voti da vincere ma riuscì a impedire a Kennedy – che aveva attaccato furiosamente per tutta la campagna elettorale – di avere la maggioranza dei delegati alla convention. Nonostante la forte opposizione di suo fratello Robert, Kennedy decise di offrire a Johnson la vicepresidenza. Johnson accettò, Kennedy vinse le elezioni, Johnson arrivò alla Casa Bianca e si ritrovò privo di poteri. In poche settimane passò dall’essere uno degli uomini più potenti di Washington all’essere un taglia-nastri, uno la cui principale occupazione era stringere mani e sorridere nelle fotografie. Kennedy e i suoi non si fidavano di lui e lo tenevano ai margini dell’attività di governo. Una cosa doveva fare, Johnson: essere utile in campagna elettorale. Non gli riusciva nemmeno quello.

Gli anni di Johnson – prima o dopo il 22 novembre 1963 – sono stati raccontati moltissimo da giornalisti, scrittori e storici. Su tutti spicca il lavoro monumentale di Robert Caro, giornalista due volte premio Pulitzer, che dal 1982 ne sta scrivendo una grande biografia in cinque volumi, di cui quattro sono già usciti. Proprio Robert Caro ha raccontato sul New Yorker che sarebbe forse riduttivo considerare il 22 novembre 1963 come una giornata sconvolgente per Lyndon Johnson solo per il fatto che diventò presidente; fu ancora più sconvolgente perché quella giornata stravolse la sua vita e forse anche la sua personalità. Il 22 novembre 1963 Johnson è politicamente un morto che cammina. Uno che non conta niente, irriso dalla stampa, che sta per essere investito da uno scandalo giudiziario e che sarà presto rimpiazzato. Secondo chi gli stava vicino, Johnson era depresso. Dicevano che l’espressione del suo volto era cambiata. Una volta disse ai suoi assistenti che per loro era meglio andare a lavorare per qualcun altro, per un politico che avesse un futuro, e non per lui.

La mattina del 22 novembre 1963 John Fitzgerald Kennedy sapeva che lo aspettava una lunga giornata: in albergo a Fort Worth aveva indossato un busto con scheletro in metallo, ancorato alle cosce, per distribuire meglio il peso, così da alleggerire il più possibile il carico sulla sua schiena debole e malandata (Kennedy aveva la malattia di Addison). L’aereo decollò per Dallas poco dopo le undici. Tre ore prima, in una sala del Senato a Washington, due membri della commissione d’inchiesta sullo scandalo Johnson iniziarono l’audizione di un broker accusato di far parte delle presunte operazioni illecite del vicepresidente. Alla stessa ora, nella sede di Life a New York, si tenne una riunione di redazione per discutere che cosa fare di un’inchiesta sulle origini della ricchezza personale di Johnson.

L’Air Force One atterrò a Dallas alle 11.38. C’era John Fitzgerald Kennedy con la moglie Jacqueline, c’era Lyndon Johnson con la moglie Lady Bird (sì, Lady Bird era una specie di nome), c’era il governatore John Connally con la moglie Nellie, più un esercito di assistenti, portavoce, giornalisti, fotografi. A terra trovarono tantissime persone: la giornata era spettacolare, John e Jacqueline Kennedy erano apprezzati e popolari. L’agenda non prevedeva che si fermassero a salutare le persone sulla pista, una volta atterrati, ma lo fecero comunque. Poi salirono in macchina – stavolta, su pressione di Kennedy, Yarborough viaggiò in quella di Johnson – e si diressero verso il centro della città.

Dealey Plaza non è esattamente una piazza: è un grande slargo con molto verde – quel giorno occupato dalle persone che aspettavano di vedere Kennedy – e una strada in mezzo. A un certo punto, mentre passavano per quella strada, chi faceva parte del corteo presidenziale sentì un suono secco e forte, come uno scoppio. Connally, che era un grande appassionato di caccia, riconobbe lo sparo di un fucile.

Johnson, che viaggiava due macchine più indietro, disse poi che gli era sembrato un petardo. Anche la sua guardia del corpo non era certa di cosa fosse successo, ma pochi secondi dopo vide movimenti strani nell’auto del presidente, urlò «Get down!» e si gettò con tutto il suo peso contro Johnson. Quando arrivarono gli altri due colpi, tutti avevano ormai chiaro cosa stesse accadendo. Johnson si ritrovò a terra, con la faccia schiacciata sui tappetini dell’auto, i gomiti e le ginocchia di un agente premuti contro la sua schiena. Percepì la macchina accelerare e dopo qualche secondo, dalla radio attaccata alla spalla dell’agente, sentì: «L’hanno colpito! Presto, l’hanno colpito!». La sua guardia del corpo aveva visto tutto: aveva visto il secondo colpo centrare Kennedy dietro la testa – se non avesse avuto il busto dopo il primo colpo si sarebbe accasciato: invece restò eretto – e aveva visto qualcosa di grigio e rosa uscire dalla sua testa; aveva visto Jacqueline arrampicarsi sulla limousine come per raccoglierla; aveva visto un altro agente salire al volo sulla macchina e mettere entrambi al riparo.

Le macchine arrivarono all’ospedale di Parkland, distante pochi chilometri. Johnson e la moglie furono portati dentro da un gruppo di agenti e in seguito non ricordarono nemmeno se i loro piedi toccarono terra, corridoio dopo corridoio. Gli agenti trovarono una piccola stanza libera, dissero a Johnson e sua moglie di aspettare lì, mentre loro si appostavano fuori per sorvegliarla. Johnson chiese che rintracciassero le sue figlie e che portassero da lui il suo staff. Qui bisogna sforzarsi di immaginare una cosa importante: nessuno sapeva esattamente cosa fosse accaduto. Qualcuno aveva sparato, stop: era una persona sola o era più di una? Era un matto o erano i russi? Era stato un attentato o una dichiarazione di guerra? Col presidente in sala operatoria inizierà un attacco missilistico? L’obiettivo era soltanto Kennedy o anche Johnson? In fin dei conti anche Connally era stato gravemente ferito. E soprattutto: era finita? Ci sarebbero state altre aggressioni, cecchini all’aeroporto, esplosioni, a Dallas o altrove negli Stati Uniti?

Johnson e la moglie aspettarono diversi minuti in quella stanza, lei seduta, lui in piedi appoggiato a un muro, immobile. Arrivarono i membri più fidati del suo staff. Chi c’era raccontò che Johnson era molto calmo, al contrario degli altri che sembravano – comprensibilmente – pronti a crollare. Un funzionario entrò nella stanza, disse che probabilmente Kennedy non ce l’avrebbe fatta e suggerì che Johnson prendesse l’Air Force One e lasciasse immediatamente l’ospedale, per tornare a Washington. Lo staff di Johnson concordava. Johnson prese la prima delle molte decisioni che avrebbe preso quel giorno: disse no. Avrebbe aspettato almeno di sentire un medico riguardo le condizioni di Kennedy. Passò dell’altro tempo prima che alle 13.20 l’assistente personale di Kennedy, Kenneth O’Donnell, entrasse nella stanza in lacrime e dicesse: «È morto».

Nel frattempo, a New York, la redazione di Life seppe della sparatoria e interruppe la riunione per decidere cosa fare dell’inchiesta su Johnson. La pubblicazione fu rinviata, così come le ulteriori indagini sulle finanze di Johnson: «Pensai che avremmo dovuto dargli una chance, concedergli un po’ d’aria», disse poi il direttore. A Washington, invece, nessuno si era premurato di dare la notizia ai membri della commissione d’inchiesta e al broker impegnati nell’audizione sui presunti reati commessi da Johnson. Seppero tutto in una volta, sparatoria e morte del presidente, quando una segretaria entrò di corsa nella stanza e piangendo urlò che Kennedy era stato ucciso. La riunione fu interrotta.

Nel momento in cui seppe che Kennedy era morto, Johnson prese il comando. Chi era con lui raccontò di aver rivisto lo sguardo e l’atteggiamento che aveva avuto per tutta la vita, prima di diventare vicepresidente: improvvisamente aveva di nuovo qualcosa di importante – di incredibilmente importante – di cui occuparsi. Chi era attorno a lui trovava confortante il fatto che fosse apparentemente sicuro di cosa fare, in pieno controllo della situazione. Gli suggerirono di nuovo di tornare a Washington, lui rifiutò e chiese dove fosse Jacqueline Kennedy. Gli risposero che Jacqueline non voleva lasciare l’ospedale senza il corpo di suo marito e che lui sarebbe dovuto tornare a Washington senza di lei. Lui disse di nuovo no: sarebbe tornato a Washington con lei e con il corpo di Kennedy.

Johnson non ignorava i rischi collegati alla sua presenza a Dallas, il rischio che l’attentato non fosse finito e che lui stesso, nella città, fosse ancora in grave pericolo: ma pensava che lasciarsi i Kennedy alle spalle sarebbe stato particolarmente brusco per lui e brutto da vedere per il paese. Gli agenti lo convinsero almeno a lasciare l’ospedale e a spostarsi sull’Air Force One, a terra, su una pista dell’aeroporto di Dallas. Prima che si avviassero, un funzionario gli chiese – rivolgendosi per la prima volta a lui come «signor presidente» – se comunicare la notizia alla stampa. Johnson disse di farlo non appena fosse arrivato sull’Air Force One. I giornalisti fuori dall’ospedale videro Johnson uscire ma non lo seguirono, nessuno voleva lasciare il posto dove si trovava Kennedy, che loro credevano ancora vivo. Solo il fotografo ufficiale della Casa Bianca, Cecil Stoughton, andò col corteo di auto. Johnson chiese che, oltre al suo staff, venissero con lui anche alcuni politici locali, suoi vecchi amici e alleati, che nel frattempo erano arrivati in ospedale.

Arrivato dentro l’Air Force One, Johnson passò davanti alla porta della camera da letto presidenziale: ordinò che restasse libera, «a completa disposizione della signora Kennedy». Nel frattempo l’ospedale annunciò la morte di Kennedy. La voce di Walter Cronkite, grande giornalista statunitense, interruppe così uno sceneggiato della CBS.

Johnson si sistemò col suo staff in un ufficio. Bisognava prendere un’altra decisione: se prestare giuramento lì o aspettare di tornare a Washington. Si trattava solo di un atto formale – Johnson era diventato presidente nell’istante in cui Kennedy era morto – ma era un atto formale di enorme importanza simbolica. C’erano delle ragioni per preferire un giuramento immediato: il fatto che il presidente fosse stato ucciso, e non morto per cause naturali come per esempio Roosevelt, rafforzava l’argomento per cui era opportuno che il paese e il mondo sapessero che qualcuno era alla sua guida, che qualcuno era in charge. Davanti a un fatto così scioccante bisognava dare un segnale di stabilità, di continuità, di forza delle istituzioni. Johnson decise così. Ma non era finita: Johnson doveva fare una telefonata molto importante e delicata, per cui aveva bisogno di privacy. Decise allora di utilizzare la camera da letto dei Kennedy. Doveva chiamare Bobby Kennedy.

Fratello di John, Bobby aveva un pessimo rapporto con Johnson, di cui diceva cose terribili che trapelavano puntualmente sui giornali, ed era considerato l’astro nascente della famiglia Kennedy, quello che secondo la stampa un giorno si sarebbe candidato alla presidenza. Bobby Kennedy era il procuratore generale degli Stati Uniti – il ministro della Giustizia, più o meno – e Johnson lo considerò la persona più indicata per ottenere una consulenza legale sul giuramento e chi potesse amministrarlo. E serviva anche la formula esatta del giuramento, quella che avrebbe dovuto recitare. Le risposte a queste domande si potevano ottenere anche da qualcuno che non fosse il fratello del presidente ucciso: da un funzionario, da un ufficio legale del dipartimento. Robert Caro, il biografo di Johnson, spiega che già in quel momento si vedevano alcuni dei tormenti che avrebbero perseguitato Johnson per tutta la vita: il fatto di sentirsi “abusivo” e cercare una legittimazione; il fatto di essere arrivato alla presidenza senza essere particolarmente popolare, a causa di due proiettili; il fatto che tutto questo fosse accaduto a casa sua, in Texas – tutto ciò lo portò a cercare in quel momento l’approvazione e la vicinanza dei Kennedy. Ma le telefonate con Bobby – alla fine furono due – non andarono bene e ognuno ne ha raccontato versioni diverse.

Bobby Kennedy aveva saputo della morte del fratello pochi minuti prima, da una telefonata di J. Edgar Hoover, il capo dell’FBI. Johnson disse di aver tentato di confortarlo e distrarlo per qualche minuto facendolo parlare di questioni legali, di codici, di cose concrete, e che Bobby era stato molto disponibile e professionale nonostante il momento complicato. Johnson gli disse che aveva intenzione di giurare subito, come gli era stato consigliato; gli chiese se avesse obiezioni o cose da suggerire. Bobby non rispose. Johnson disse poi di aver interpretato quel silenzio come un assenso, Bobby raccontò invece di aver trovato eccessiva la fretta di Johnson e che gli sarebbe piaciuto che suo fratello fosse tornato a Washington da presidente, per quanto in una bara; disse che Johnson lo spiazzò e per quanto poi capì che giurare immediatamente fosse stata la cosa migliore, trovò incredibile il fatto che lo chiamò – tra tutti, proprio lui – per ragioni così poco “indispensabili”. In una seconda telefonata il vice di Bobby, Nicholas Katzenbach, dettò a Johnson la formula del giuramento:

«I do solemnly swear that I will faithfully execute the office of President of the United States, and will to the best of my ability, preserve, protect and defend the Constitution of the United States»

Johnson riattaccò e diede altre disposizioni in vista del giuramento. Disse che avrebbe voluto nella stanza quante più persone possibile. Chiese di trovare e portare lì Sarah Hughes, un giudice federale di Dallas che conosceva, perché amministrasse lei il giuramento: ironicamente, la storia di Hughes – alleata e amica di Johnson, la cui nomina fu clamorosamente bocciata una volta dal Congresso texano – simboleggiava quanto Johnson fosse privo di poteri da vicepresidente. C’era un’altra cosa che Johnson voleva, molto più importante e delicata: niente avrebbe potuto rendere la transizione più legittima agli occhi del mondo, niente avrebbe indebolito di più le accuse di avere “usurpato” l’incarico, della presenza di Jacqueline Kennedy al giuramento. Ma Johnson rischiò di compromettere il tentativo di portare Jacqueline al giuramento prima ancora di cominciare.

Mentre era al telefono, infatti, dall’altra parte dell’aereo iniziò la rimozione dei sedili per far spazio alla bara di Kennedy, che stava per essere portata sull’Air Force One insieme con la moglie Jacqueline. Johnson non sapeva che Jacqueline stava arrivando, insomma. Dall’altro lato, Jacqueline non sapeva che avrebbe trovato Johnson sull’Air Force One: dava per scontato che fosse tornato a Washington con l’Air Force Two, l’aereo del vicepresidente. I due si incontrarono nel peggior posto possibile: quando Jacqueline, stravolta e sporca di sangue, aprì la porta della sua camera da letto, ci trovò dentro Johnson, in maniche di camicia, sul letto, al telefono. Johnson raccontò poi che in realtà stava per alzarsi e uscire. Si incrociarono rapidamente e non si sa che cosa si dissero. Poi Johnson uscì.

Poco dopo uscì anche Jacqueline, che si sedette nell’aereo vicino alla bara di Kennedy. La moglie di Johnson si mise vicino a lei – le due mogli di Kennedy e Johnson, al contrario dei mariti, avevano un buon rapporto – e scambiarono qualche parola. Anni dopo, la moglie di Johnson raccontò così quel momento:

«Fu una cosa davvero molto difficile. Il vestito della signora Kennedy era macchiato di sangue. Una delle sue gambe era praticamente coperta di sangue e il suo guanto destro era incrostato, il guanto di quella donna immacolata era incrostato del sangue di suo marito. Lei metteva sempre i guanti, era abituata a indossarli. E vedere quel guanto fu particolarmente struggente: Jacqueline era vestita divinamente e imbrattata di sangue»

Quando la moglie di Johnson chiese a Jacqueline Kennedy se intendeva cambiarsi, lei rispose con una delle frasi più famose di quel giorno: «No. Voglio che vedano cosa gli hanno fatto». Poi si avvicinò anche Lyndon Johnson e fece la richiesta. «Dunque, riguardo il giuramento…». Lei rispose subito: «Ah, sì, lo so, lo so». Robert Caro scrive che Jacqueline capì il significato della sua presenza, e anche senza dire esplicitamente di sì fece capire a Johnson che ci sarebbe stata. Johnson tornò nel suo ufficio. In una stanza cinque metri per cinque si trovavano adesso gli agenti dei servizi segreti; gli assistenti e le segretarie di Kennedy, arrivati con la bara; un maggiore dell’esercito; quattro assistenti di Johnson; Bill Moyers, il portavoce della Casa Bianca, l’uomo che suggerì di togliere la copertura dell’auto di Kennedy vista la bella giornata. Erano tanti e faceva caldo: il pilota aveva spento l’aria condizionata e l’avrebbe riaccesa soltanto al decollo. Molti nella stanza singhiozzavano.

Mancava un’altra cosa: un fotografo. L’importanza simbolica di un giuramento immediato accanto a Jacqueline Kennedy si sarebbe persa se non ci fosse stata almeno una fotografia di quel momento. Fortunatamente sull’aereo era salito anche Cecil Stoughton, il fotografo ufficiale della Casa Bianca, che aveva lasciato l’ospedale con Johnson invece di aspettare Kennedy: grazie a quell’intuizione ebbe l’opportunità di scattare una delle fotografie più famose di sempre. Fu Stoughton a dire a Johnson dove si sarebbe dovuto mettere, perché la foto venisse bene, e dove spostare le altre persone. A quel punto si aspettava soltanto l’arrivo del giudice Hughes.

I testimoni e gli assistenti di Johnson raccontano che videro l’uomo tornato in sé, dopo anni. La smorfia della sua bocca era sparita, l’aria spenta non c’era più, la sua notevole altezza gli dava una figura non più goffa ma imponente. “Tra tutta la confusione, la disperazione e il caos di quel giorno”, scrive Robert Caro, “una cosa diventò evidente per chi si trovava con lui: qualcuno si stava occupando di mettere ordine”. Johnson fece soltanto un’altra cosa, prima che arrivasse il giudice Hughes: raggiunse i due principali collaboratori e consiglieri di Kennedy, Kenneth O’Donnell e Larry O’Brien – li chiamavano “la mafia irlandese”, per quanto erano potenti e influenti alla Casa Bianca – e gli chiese di non dimettersi e mantenere il loro incarico. Disse loro, guardandoli negli occhi, che aveva bisogno di loro, che aveva tanto da imparare e che lui non era intelligente come Kennedy. «Non c’è nessuno qui a cui io possa rivolgermi che abbia più esperienza di voi. Ho bisogno di voi più di quanto ne avesse bisogno il presidente Kennedy». I due sul momento non risposero, ma negli anni seguenti O’Brien diresse la campagna elettorale di Johnson, mentre O’Donnell fu uno dei suoi principali consiglieri.

Poi arrivò il giudice Hughes. Si prepararono tutti al giuramento. Qualcuno andò a chiamare Jacqueline, che raggiunse la stanza. Johnson chiese che si mettesse accanto a lui anche Evelyn Lincoln, la segretaria di Kennedy. Johnson posò la sua grossa mano sinistra su un messale che apparteneva a Kennedy, coprendolo quasi del tutto. Di quella scena incredibile – una stanzetta calda, dentro un aereo, col tetto basso; piena di gente, aria viziata; si sentono il motore acceso e i singhiozzi, si parla sottovoce; una di quelle persone è sporca del sangue di suo marito, un’altra sta per diventare l’uomo più potente del mondo – ci rimangono qualche fotografia e una registrazione audio fatta rocambolescamente con un telefono. Johnson recitò il giuramento, abbassò la mano e disse: «Ora partiamo».

Johnson

Johnson fu confermato alla presidenza alle elezioni del 1964 (non si può dire “rieletto”, anche se presidente lo era già). Gli anni della sua amministrazione sono ricordati come il punto più alto raggiunto dalla politica liberal americana nella seconda metà del Novecento. Durante la presidenza Johnson, infatti, troveranno compimento molte importante e storiche riforme, alcune avviate da Kennedy: la storica approvazione della legge sui diritti civili, che bandiva la segregazione razziale; una riforma che favorì l’immigrazione; un grande aumento dei finanziamenti all’istruzione e alle scuole pubbliche; una legge sul controllo delle armi all’epoca molto severa; l’avvio dei programmi di assistenza sanitaria Medicare e Medicaid, a vantaggio degli anziani e dei poveri. Durante la presidenza Johnson la percentuale degli americani che vivevano in povertà si ridusse dal 23 al 12 per cento. Johnson allargò moltissimo il contingente militare in Vietnam tentando di dare una svolta alla guerra, ma senza grandi risultati. L’inchiesta giornalistica sulla sua ricchezza fu pubblicata anni dopo e non generò grande scandalo. L’indagine del congresso sui suoi soldi si concluse soltanto con la condanna del broker. Nel 1968, dopo un primo tentativo deludente alle primarie democratiche, rinunciò a candidarsi di nuovo alla presidenza. Non fu mai popolarissimo, soffrì per alcune teorie che lo indicavano come il responsabile della morte di Kennedy, una parte dell’opinione pubblica continuò sempre a contestarlo dandogli dell’usurpatore.