Cos’è la “Google Tax”

E perché se ne parla di nuovo, tra chi è scettico e chi pensa che permetterebbe all'Italia di ottenere un miliardo di euro

SAN FRANCISCO, CA – MAY 15: during the opening keynote at the Google I/O developers conference on May 15, 2013 in San Francisco, California. Thousands are expected to attend the 2013 Google I/O developers conference that runs through May 17. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

SAN FRANCISCO, CA – MAY 15: during the opening keynote at the Google I/O developers conference on May 15, 2013 in San Francisco, California. Thousands are expected to attend the 2013 Google I/O developers conference that runs through May 17. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)

Negli scorsi giorni è circolata molto la proposta di costringere alcune tra le più grandi società online al mondo – come Google, Facebook e Amazon – a pagare più tasse in Italia. La proposta è stata attribuita a Francesco Boccia, deputato del PD e presidente della commissione Bilancio della Camera, considerato molto vicino al presidente del Consiglio Enrico Letta. Lo stesso Boccia aveva già presentato un disegno di legge sul tema il 4 ottobre 2013. Secondo La Stampa, Boccia starebbe pensando di proporre un emendamento alla legge di stabilità che stabilisca che servizi e prodotti venduti su internet possano essere acquistati solo da società che abbiano aperto una partita IVA in Italia. Un provvedimento simile, valido per tutti i paesi europei, è stato richiesto nei giorni scorsi anche dal ministro per l’Economia digitale francese Fleur Pellerin.

La questione esiste perché le aziende in questione registrano spesso i ricavi ottenuti come servizi prestati a un’altra società del gruppo, che spesso ha sede in un paese con una tassazione più favorevole: è il caso di Amazon, che ha sede legale in Lussemburgo per le operazioni europee (come spiegava una puntata di Report andata in onda il 16 dicembre 2012), oppure di Facebook e Google, che hanno sede in Irlanda – dove l’imposta sul reddito delle imprese è al 12,5 per cento. Facebook nel 2012 ha pagato all’Agenzia delle Entrate 192 mila euro, Amazon 950 mila, mentre Google circa 1,8 milioni. Secondo Boccia, introducendo questo emendamento, potrebbero essere incassati circa un miliardo di euro: al contempo, si impedirebbe che vengano danneggiate le società italiane del settore, che secondo lui attualmente soffrono di «concorrenza sleale». Anche il segretario del PD Guglielmo Epifani si è detto favorevole all’introduzione di un simile provvedimento.

In molti hanno però criticato la proposta di Boccia, sostenendo che con tutta probabilità il provvedimento infrangerebbe gli accordi relativi al mercato unico dell’Unione Europea. L’economista Tim Worstall ha scritto su Forbes che «l’Unione Europea è basata sia sull’idea che debba esistere il libero scambio di beni, servizi, persone e capitali, sia sulla libertà di impresa: non sono bulloni accessori, ma pezzi fondamentali dell’intera struttura». Lo studioso Massimiliano Trovato, sul blog dell’Istituto Bruno Leoni, ha detto che il governo potrebbe invece studiare delle misure per ridurre la tassazione sul reddito d’impresa, al fine di incoraggiare società estere a investire nel mercato digitale in Italia: secondo Trovato la proposta di Boccia «accredita l’idea che vi sia un livello di tassazione – per così dire – naturale: guardacaso, quello applicato in Italia e non quello, più basso, individuato in paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo. Se davvero volesse “agire nell’interesse delle nostre imprese”, Boccia avrebbe a disposizione una soluzione ovvia: adeguare al ribasso l’entità del nostro prelievo».

Carlo di Foggia, sulla Stampa, sostiene inoltre che un provvedimento come quello proposto da Boccia farebbe guadagnare al governo italiano una cifra molto lontana da un miliardo di euro:

Basterebbe guardare i numeri. Nei primi sei mesi del 2013 il fatturato della pubblicità online si è fermato a 260 milioni di euro, in calo del 2% rispetto al primo semestre del 2012. Le stime per fine anno si aggirano intorno ai 500 milioni. “Ipotizzando che i grandi gruppi stranieri intercettino circa il 60% del mercato nazionale – spiega Carnevale Maffè – possiamo pensare ad un giro d’affari italiano nell’ordine dei 300-350 milioni”. Di questi, solo una parte può essere tassata, visto che la base imponibile è fatta dagli utili e non dal fatturato complessivo: “Una fiscalità su reddito presunto potrebbe essere nell’ordine del 5-7% del fatturato, quindi un gettito complessivo di massimo 15-20 milioni all’anno, nelle ipotesi più ottimistiche”.

foto: Justin Sullivan/Getty Images