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  • Lunedì 7 ottobre 2013

7 giorni di “shutdown” negli Stati Uniti

Da una settimana il governo americano ha sospeso le attività non essenziali: perché le trattative sono ferme e perché la faccenda rischia di farsi più grave

di Francesco Costa – @francescocosta

US President Barack Obama speaks on the government shutdown and the budget and debt ceiling debates in Congress during a visit to M. Luis Construction, a construction company, in Rockville, Maryland, October 3, 2013, on the third day of the government shutdown. AFP PHOTO / Saul LOEB (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP/Getty Images)
US President Barack Obama speaks on the government shutdown and the budget and debt ceiling debates in Congress during a visit to M. Luis Construction, a construction company, in Rockville, Maryland, October 3, 2013, on the third day of the government shutdown. AFP PHOTO / Saul LOEB (Photo credit should read SAUL LOEB/AFP/Getty Images)

Da sette giorni il governo degli Stati Uniti ha interrotto tutte le attività non essenziali, non potendo più finanziarle: è il cosiddetto “shutdown”, lo “spegnimento” delle attività del governo, e sta avvenendo per la prima volta dagli anni Novanta. I servizi fondamentali sono garantiti, le pensioni vengono pagate, ma 800.000 impiegati del settore pubblico non lavorano e non vengono pagati, mentre a 1.000.000 di impiegati è stato chiesto di lavorare senza paga. Accade per via della mancata approvazione della legge finanziaria che avrebbe dovuto stanziare le risorse necessarie per il funzionamento del governo.

Sette giorni dopo la situazione è al punto di partenza: le trattative tra i repubblicani (che controllano la Camera) e i democratici (che controllano il Senato) non sono arrivate da nessuna parte. Anzi, forse non ci sono state e basta: il presidente Barack Obama ha deciso infatti di non negoziare finché i repubblicani – e soprattutto l’ala estremista dei Tea Party – non smetteranno di usare lo “shutdown” come posizione per ricattare lui e i democratici. Per capire la rigida posizione di Obama bisogna sapere che la situazione attuale è l’ultima tappa di un guaio che va avanti praticamente dal 2011: da quando la tattica “da sequestratori” dei repubblicani – che non sono disposti a far alcun compromesso rispetto alle loro posizioni più oltranziste – portò l’amministrazione e i democratici a impelagarsi in una trattativa estenuante che si concluse, per restare nella metafora, col pagamento del riscatto.

All’epoca i repubblicani ottennero tagli immediati alla spesa pubblica e una norma che ne avrebbe fatti scattare automaticamente degli altri in modo orizzontale su tutti i capitoli di spesa – il cosiddetto “sequester” – in mancanza di un altro accordo che naturalmente non fu raggiunto. Obama fu molto criticato e fu accusato di aver capitolato alle richieste irresponsabili dei repubblicani; anche per questo, secondo molti analisti, stavolta intende restare sulle sue posizioni finché i repubblicani useranno come arma di contrattazione lo “shutdown”, cioè la chiusura delle attività del governo. In questa occasione il nodo della discussione è stato il tentativo dei repubblicani di introdurre nella legge finanziaria una norma che abolisse o rinviasse l’effettiva entrata in vigore della riforma sanitaria promossa da Obama, approvata dal Congresso nel 2010 e giudicata legittima dalla Corte Suprema nel 2012.

Di fatto il guaio sarà superato – e la trattativa sul budget ricomincerà – quando una delle due parti cederà: quando Barack Obama deciderà di sedersi a un tavolo con i repubblicani per interrompere lo “shutdown” o da quando i repubblicani decideranno di interrompere lo “shutdown” garantendo al governo i fondi necessari per le sue attività. Ma ovviamente è una distinzione sottile: la scelta di Obama di non negoziare è in qualche modo un modo di negoziare, così come per i repubblicani lo “shutdown”. Obama spera che l’opinione pubblica attribuisca ai repubblicani la responsabilità dello “shutdown”, dei disservizi e delle sue probabili conseguenze negative sull’economia statunitense, e in questo è confortato dai sondaggi; dall’altra parte i repubblicani della Camera – grazie al cosiddetto gerrymandering: il ridisegno dei collegi allo scopo di ottenere dei vantaggi politici – non temono particolari ritorsioni degli elettori e si sentono al sicuro.

Questa è la ragione più semplice per cui la situazione potrebbe diventare presto preoccupante: per il momento nessuna delle due parti sembra intenzionata a cedere. Ma ce ne sono altre due piuttosto concrete.

La prima è che il capo dei repubblicani, lo speaker della Camera John Boehner, non sembra avere grande presa sul suo partito ed è considerato da molti subalterno e condizionato dai Tea Party. Secondo molti analisti questa è una delle ragioni che hanno portato allo “shutdown” nonostante molti repubblicani non fossero d’accordo.

La seconda ragione è che il problema più grosso per gli Stati Uniti arriverà presto e non è lo “shutdown”, bensì il rischio di fare bancarotta. Gli Stati Uniti per legge non possono indebitarsi oltre una certa cifra e quella cifra è fissata dalla legge. La prassi vuole che quando ci si avvicina a quella cifra il Congresso alzi il tetto, per permettere al paese di continuare a finanziarsi sul mercato vendendo titoli di stato: questo passaggio formale, in passato praticamente automatico, in questi anni è diventato oggetto di infinite trattative politiche. Boehner dice che le questioni “shutdown” e tetto del debito vanno risolte con un’unica trattativa.

Se il Congresso non approverà una legge che alzi il tetto del debito, intorno alla fine di ottobre – tra il 22 e il 31 – gli Stati Uniti non potranno più finanziarsi con la cessione di nuovi titoli di stato né ripagare i creditori in possesso di vecchi titoli di stato: sarebbero costretti di fatto a fare default, trovandosi impossibilitati a pagare i propri debiti, ma non per ragioni economiche bensì per ragioni politiche. Nell’agosto del 2011 il mancato accordo sul tetto del debito – che fu poi raggiunto poco dopo la scadenza – portò al primo downgrade del rating americano nella storia, operato da Standard & Poor’s.

foto: SAUL LOEB/AFP/Getty Images