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  • Domenica 16 giugno 2013

La grande chiazza di immondizia nel Pacifico

"Non. È. Un'isola", spiega nel suo libro Andrew Blackwell, che l'ha vista

di ANDREW BLACKWELL

Mentre dormivo sentii l’ordine. Tutti in coperta! Qualcuno l’aveva gridato nella nostra cabina. Ammainare le vele! Ruzzolammo giù dalle brande, ci infilammo in qualche modo le mantelle impermeabili e salimmo mezzi addormentati.
Il ponte era un bailamme di vento e suono, senza stelle. «La Marina sta svolgendo un’esercitazione qui vicino», spiegò il primo ufficiale. «Ci hanno ordinato di spostarci a nord. Ho chiesto di poterci spostare sottovento, ma si sono limitati a ripetere l’ordine». La nave, spinta dai motori, stava muovendosi esattamente controvento, con le vele che sbattevano, flosce e incontrollate. Il vento le avrebbe ridotte a brandelli.
Lottammo al buio con le vele anteriori. L’aria era piena di spruzzaglia; gli spessi cavi si muovevano a strappi, schioccando nel caos. A prua eravamo in sei. Quattro erano sul bompresso – il lungo pennone che si estende in avanti, sopra l’acqua – e due sulla parte anteriore della prua, dove il bompresso si unisce alla barca.
Ero sul ponte, cercando a tastoni nel buio i cavi d’alabbasso e i matafioni che avrebbero tirato giù e assicurato le vele. Dopo qualche settimana in mare, sapevo che cosa cercare. Ma non voleva dire che lo trovassi.
La barca raggiunse la sommità di un’onda. Nella notte sentivamo la prua sollevarsi sempre più. Sembrò fermarsi in cima. Per un momento fluttuammo nell’aria salsa.
Poi ricademmo. La nave immerse la prua nell’onda in arrivo, più a fondo che mai. I quattro sul bompresso – miei amici – sparirono sotto la superficie, con la schiuma che ribolliva sopra le loro teste. Erano spacciati? Il ponte andò sotto con loro. L’acqua mi raggiunse la vita, mi trascinò, mi spinse verso poppa. Robin mi prese per un braccio e mi afferrai alla battagliola; riuscimmo a non rotolare in fondo al ponte. Guardai verso il bompresso e pensai Si vede solo schiuma.
Ancora un secondo e la nave era passata oltre, riemergendo dall’onda; li vidi. Erano ancora lì, ancora aggrappati al bompresso, tutti e quattro. Li ricontai. Quattro. Non erano di più?
«Ci siamo tutti?», gridai. «Siamo ancora tutti a bordo?».
Ma si erano rimessi a lavorare abbrancando le vele, con l’acqua che fluiva dalle giacche, gridando come durante un rodeo. Robin mi lasciò andare e tornammo al groviglio di cavi ai nostri piedi. Ma mi girava ancora la testa per l’immagine dell’acqua che ci raggiungeva, del mare che invadeva il ponte. Lo sentivo ancora, come tirava il mio corpo, una forza travolgente che ruotava attorno a noi e attraverso noi, la gravità aliena di un altro universo, il nero oceano senza rimorso.

Avrete sentito parlare della Grande chiazza di immondizia del Pacifico: un’isola di spazzatura formata da un vortice gigantesco di correnti che radunano tutta la plastica eterna che galleggia nella metà nord dell’Oceano Pacifico in un purgatorio roteante senza fine, un continente di plastica formatosi da solo, grande il doppio del Texas.
Stronchiamo questa cosa sul nascere: non è un’isola.
Vorrei ripeterlo. Non. È. Un’isola.
Non c’è una massa solida, non c’è un tappeto galleggiante di immondizia, non c’è terraferma. Ma è vera. È stata scoperta nel 1997 da Charles Moore, diportista e ambientalista, che ne ha fatto l’oggetto della sua associazione non profit, l’Algalita Marine Research Foundation. È grazie alle scoperte di Moore che dopo il 2000 la Chiazza di immondizia del Pacifico divenne nota all’opinione pubblica. Chi poi sia responsabile dell’immagine affascinante di un’isola di plastica, non lo so. Ma qualcuno lo dovrebbe rintracciare e dargli in fretta un simpatico ceffone. Bisognerebbe inoltre far pagare una multa esorbitante a chiunque – chiunque – descriva questa non-isola come «grande quanto il Texas» o «grande il doppio del Texas». Durante le mie ricerche era impossibile trovare un articolo o un servizio sulla Chiazza di immondizia che non menzionasse il Texas.
Perché il Texas? Non c’è un altro territorio che possa fare da punto di riferimento comodo per il lettore? Il giornalismo dozzinale è ormai una forma d’arte così immiserita che i suoi praticanti non si possono neppure prendere la briga di perdere i cinque secondi per cercare su Google informazioni necessarie a creare gemme originali come «tre volte la California» o «due Nevada e un’Arizona» o «grande quasi come l’Alaska se non contiamo le isole Aleutine»?
Il vero problema è che, anche se due Texas coprono un milione e mezzo quasi pulito di chilometri quadri, nessuno sa quanto sia veramente grande la Chiazza di immondizia. A differenza del Texas e, cosa essenziale, a differenza di un’isola, non ha un confine ben definito, ma è solo un’area approssimativa. E allora diciamo solo che è grande e lasciamola così.
Un’analogia più appropriata sarebbe con un ecosistema. Sistema è la parola giusta, nel senso di qualcosa di ben più complesso di un semplice oggetto galleggiante. Da pezzi di polistirolo grandi come tonni e reti da pesca scartate, in agguato come enormi meduse, fino a grumi microscopici sospesi in acqua come plancton artificiale, è un enorme simulacro di plastica dell’oceano vivente che lo ospita. E proprio perché è così complesso, e così lontano dalla terraferma, della sua natura si sa pochissimo.
Nessuno sa per certo da dove venga di preciso tutta questa roba, ma più o meno si è d’accordo che per la stragrande maggioranza venga dalla terraferma. Una quantità sorprendente di spazzatura riesce a evitare le discariche; e quando questo succede spesso si fa strada fino al mare, attraverso canali di scolo, fiumi o altri percorsi.
Dato che gli oggetti di plastica non si degradano facilmente, ammesso che prima o poi lo facciano, hanno tutto il tempo che vogliono per allontanarsi da terra e trovare le correnti oceaniche. Una bottiglia di plastica colta dalle correnti al largo di San Francisco si sposta verso sud via via che si addentra nel Pacifico, arrivando alle latitudini del Messico e addirittura del Guatemala prima di puntare decisamente verso ovest, presa dal Vortice subtropicale del Pacifico settentrionale. Questo enorme vortice antiorario trasporta la bottiglia dritto in direzione delle Filippine e poi a nord verso Taiwan, vicino al Giappone e poi di nuovo indietro, lungo l’Alaska e verso il resto del Nordamerica.
Il Vortice gira e gira, e riteniamo che le bottiglie di plastica e i caschi di protezione del Nord Pacifico gli vadano appresso, finché raggiungono le zone più calme alle estremità est e ovest di questo nastro trasportatore oceanico. Sono le Chiazze di immondizia orientale e occidentale. (È a quella orientale che è rivolta tutta l’attenzione, perché è più vicina agli Stati Uniti ed è stata scoperta per prima.) Qui la nostra bottiglia di plastica trova i suoi amici: tutti gli altri oggetti e pezzi di plastica che sono riusciti a trovare la strada attraverso l’oceano nel corso di chissà quanto tempo. E qui aspettano, anno dopo anno, frammentandosi sotto l’azione delle onde, per strangolare tartarughe sfortunate, per strozzare albatri troppo intraprendenti che scambiano la plastica per cibo, e per farsi mangiare dai pesci.
A un certo punto arrivano scienziati e ambientalisti e avventurieri. Se nella storia della nostra plastica qualcosa galleggia, la Chiazza di immondizia è il posto dove si può trovare: le nostre bottiglie, i nostri teloni di plastica, i nostri imballaggi a bolle, i «granuli leviganti» dei nostri saponi esfolianti. È tutto qui, pronto per dargli la caccia.
O almeno, così speravo. Ma visto che non ci passa nessuna nave di linea, come facevo a sincerarmene? Il che ci porta a un altro fatto interessante sulla Chiazza di immondizia: non l’ha vista praticamente nessuno. Bisogna essere dei naviganti di prima categoria per arrivarci. E non c’è quasi nessun motivo che spinga chi va per mare ad andarci. Chiunque abbia un panfilo o simili è più interessato a luoghi come le Hawaii, o le Bahama, o qualunque altro posto. Invece la Chiazza di immondizia, come è intrinseco nella sua formazione, è nel bel mezzo del più grande niente del pianeta.
L’estate precedente, quella del 2009, il Vortice aveva visto varie spedizioni di ricercatori e attivisti; così mi attaccai al telefono e iniziai una campagna di prolungato tormento che sperai mi avrebbe dato accesso a uno dei viaggi di quest’anno. E fu così che conobbi il Progetto Kaisei.

Trovai la Kaisei all’ancora a Point Richmond, dalla parte opposta della baia rispetto a San Francisco. Era spettacolare: un brigantino lungo 45 metri dallo scafo d’acciaio, attrezzato con vele quadre. Pensate a una nave pirata di metallo e avrete chiara l’immagine. La nave dà il nome e l’abbrivio al Progetto Kaisei, un’iniziativa senza fine di lucro volta, come dice il suo motto, a «catturare il vortice di plastica». Avevo convinto in qualche modo Mary Crowley, una dei fondatori, a farmi partecipare al viaggio di tre settimane verso il vortice di plastica, che mulinava da qualche parte in mezzo al mare, mille miglia più in là. Ma avevo i miei dubbi circa la possibilità di catturarlo.
Specialmente se non partivamo. Avevamo passato più di una settimana senza un’idea chiara di quando ci saremmo messi per mare. Veniva annunciata una data di partenza, arrivata la quale il nuovo radar ancora non era arrivato, o dovevano ancora portare le provviste, o mancava un cuoco, e non si partiva.
Nel frattempo ogni giorno si faceva viva una parte dell’equipaggio per dare una mano a pulire la nave, a turare i buchi formati dalla ruggine, a dare una nuova mano di azzurro allo scafo o a installare una scialuppa in più, e io avevo il tempo di sviluppare i miei sentimenti confusi nei confronti della Kaisei. Dal primo istante che ero salito a bordo avevo percepito quel sapore di entusiasmo che ha un elemento di terrore. La nave aveva due grandi alberi; quello anteriore aveva ben quattro pennoni a cui sarebbero state sospese le maestose vele quadre, qualcosa che sembrava uscito da una biografia di Nelson. Decine e decine di cavi e corde – cime, ci dissero, non corde ma cime – che andavano dalle caviglie sul ponte ai matafioni in alto; con queste cime si tirava giù la vela, con queste su; cime per orientare i pennoni a dritta o a sinistra; cime per alzare o abbassare il picco di randa; cime per alzare e abbassare insiemi di pulegge connesse a ulteriori cime.
Mi avrebbero chiesto di arrampicarmi su quegli alberi, di camminare su quei pennoni, a circa mezzo chilometro di altezza? Come la maggior parte delle persone sensate, non ho paura di stare in alto: ho solo paura di cadere e sfracellarmi. Vale a dire, non è affatto una paura, ma un atteggiamento di buon senso. D’altro canto, che senso ha trovarsi su una nave d’alto bordo se non si vede che cosa si prova in alto? Sapevo che, quando mi avrebbero chiesto di salire, avrei superato o almeno aggirato la mia paura e mi sarei costretto a farlo. E quindi quello di cui avevo veramente paura era di non avere abbastanza paura.
E il tutto presentava un’elegante analogia con la mia situazione più generale: anziché un comodo viaggetto di piacere su un’imbarcazione per la stampa o su una nave da ricerca come si deve, me ne andavo per mare per tre settimane o più. A millecinquecento chilometri dalla terraferma quando invece avrei voluto trovarmi a casa a New York, avrei dovuto trovarmi a casa, a sistemare tutto per il matrimonio, a prepararmi per il grande momento, di lì ad appena due mesi, in cui il Dottore e io saremmo convolati a nozze. E la Kaisei avrebbe navigato in completo isolamento. Per l’equipaggio niente telefono satellitare, niente internet, nessun modo per comunicare con la mia famiglia o con il Dottore. Nessun modo neppure per chiedere scusa, una volta partito, di averlo fatto.
La nave stessa era affascinante, anche se un po’ trascurata, con cabine raccolte ma non claustrofobiche, due sale più che sufficienti per un piccolo equipaggio e ponti di legno sbiadito. Di fronte alla timoniera, che ospitava la radio e lo schermo del radar, c’era una plancia di comando esterna, dove il ponte saliva a formare una piattaforma con la grande ruota a raggi. Era il tipo di ruota del timone che mi sarei aspettato di vedere sulla parete di un ristorante a tema nautico.
Il problema non era la Kaisei. Il problema eravamo noi. Con il passare dei giorni, trascorsi scartavetrando e dipingendo e scaricando attrezzature scientifiche del viaggio dell’anno precedente che non servivano più, conobbi i volontari che avrebbero costituito l’equipaggio. Quanta gente serviva per manovrare con efficienza un brigantino di 45 metri? Non ero sicuro che arrivassimo a essere dieci. E via via che ci conoscevamo, veniva fuori che pochissimi di noi sapevano alcunché che potesse essere utile per governare in sicurezza il suddetto brigantino.
C’era Kaniela, per esempio, un giovane e affabile surfista hawaiano, uno di quelli che lavoravano più sodo. Mi chiese se ne sapessi molto di navi a vela.
No, dissi. Niente. Tu?
Nah, amico. Spero di imparare.
Poi c’erano Gabe e Henry, due tipi alla moda che avevano appena terminato gli studi all’Oberlin College of Arts and Sciences. La mattina che ci siamo conosciuti se ne stavano sul ponte in occhiali da sole, infagottati per il freddo dell’alba e con le mani sprofondate nelle tasche. Due tipi scontrosi, pensai, ma venne fuori che erano solo i brutti postumi di una sbornia, e di lì al primo pomeriggio s’erano rasserenati. Mi spiegarono di essere entrambi laureati, più o meno, in Scienze ambientali, o una cosa del genere. Arrivati in California, nella Marin County, da Oberlin, avevano cominciato degli stage all’Ocean Voyages Institute, l’organizzazione che tra l’altro gestiva il Progetto Kaisei. Ma tre settimane in mare sembravano una cosa un po’ estrema per essere uno stage. Chiesi perché lo facessero.
Gabe, serissimo, mi disse che era in cerca di avventura. Voleva fare l’avventuriero. Un’eccentrica canaglia, specificò. E questo era il primo passo verso il suo obiettivo.
Le farneticazioni di una mente contaminata. Mi rivolsi a Henry. Gli chiesi se sapevano governare una nave.
Sorrise. Era un sorriso sottile, quasi una smorfia. Avevano preso lezioni di vela alle superiori. Derive da due persone.
Che cos’era che sentivo nella strozza? Disperazione? Passai da un volontario all’altro, facendomi uno schema mentale di quello che sapevamo fare. Quanto a sport acquatici e insegnamento di scienze al liceo, avevamo una panchina lunga. Per il resto, c’era un po’ di tutto. C’era un costruttore di barche, un ex giornalista, qualche studente… Erano tutte persone interessanti, serie, operose. Ma non ne sapevano un cavolo di niente di come si governa un veliero.
Riponevo le mie speranze nel secondo ufficiale, un uomo di mare esperto di velieri, calmo, sicuro di sé… che girò i tacchi. Dopo un singolo pomeriggio a bordo, disse al capitano che non gli piaceva come si prospettava la faccenda e se ne andò a gambe levate.
Rieccola. La sensazione di sprofondare.
Le dimostrazioni di sfiducia cominciarono ad accumularsi. Venne un gruppo di funzionari della Guardia costiera a controllare i documenti della nave. Mentre se ne andavano, sghignazzando, sentii il capitano della Kaisei dire: «Non hanno mai visto niente del genere».
Più cose capivo sulla Kaisei, più mi rendevo conto che dal punto di vista tecnico era una vera stranezza. Una sera ero seduto sul ponte di poppa con l’ufficiale di macchina, mentre guardavo passare i rimorchiatori di Richmond e sentivo le sue lamentele. L’ufficiale di macchina era probabilmente la persona più importante dell’equipaggio, se ci stava a cuore che la nave rimanesse a galla, che ci fosse acqua potabile e che gli strumenti di navigazione funzionassero. Tutte le sere rimaneva alzato fino a tardi a convincere i sistemi della nave a farsi trovare in forma perfetta. Era un tipo burbero, ma mi sembrava un buon segno. Non vorreste un ufficiale di macchina a cui va bene tutto.
Mi spiegò con una punta di esasperazione che la Kaisei era stata costruita in Polonia e poi raddobbata e usata in Giappone. Tutte le scritte erano in polacco e in giapponese. E l’elettricità. Scosse la testa. Standard multipli, voltaggi in una varietà da far girare la testa. L’irregolarità arrivava fino alle viti e ai bulloni della nave: alcuni secondo il sistema metrico, altri no, e quindi servivano set di attrezzi diversi, ma nessuno dei set a bordo era completo.
L’ufficiale di macchina bevve dalla sua tazza e mandò un sospirone. «Scusami», disse. «Meglio che pensi al mio tè».
Di lì a qualche giorno se ne andò anche lui.
Adesso non avevamo né un secondo ufficiale né un ufficiale di macchina, e nessuno di noi umili volontari – l’equipaggio – ne sapeva un accidente di quello che stava succedendo. Ogni giorno di ritardo accorciava la missione: nel giro di appena tre settimane era in programma la partecipazione della Kaisei al Festival della vela di San Diego, dove avremmo lasciato a bocca aperta tutti gli appassionati di velieri con le nostre avventure tra la plastica oceanica. Quindi ogni giorno in porto era un giorno che non passavamo nel Vortice. Cominciammo a dubitare che la nave avrebbe mai lasciato il molo. E visto che ogni giorno spariva qualche membro esperto dell’equipaggio, anche noi bassa manovalanza ci chiedevamo se non fosse il caso di andarcene.
Qualcosa però ci tratteneva. Qualcosa che controbilanciava tutti i cattivi auspici. Un unico fattore che impediva all’intero equipaggio di lasciar perdere tutto.
Era il Re dei Pirati. Si chiamava Stephen ed era il primo ufficiale, ma lo consideravo il Re dei Pirati della Kaisei, una singola persona così irrefrenabilmente esperta di navigazione che compensava le agghiaccianti lacune di tutti noi altri. Era un uomo compatto, o addirittura basso, ma forte e in forma, con una barba curata e due anelli dorati all’orecchio sinistro. E, per i distratti, portava un berretto da baseball nero con teschio e tibie incrociate.
La Kaisei aveva anche un capitano, ma per lo più lo ignoravamo per riguardo verso il Re dei Pirati, che era un vero esempio di quel tipo di risolutezza che si fonda su una preparazione sovrastante. Sapeva governare una nave, stringere nodi, armare le vele, camminare sui pennoni usando a malapena una mano per reggersi e scivolare lungo gli stralli, alla Douglas Fairbanks, riatterrando sul ponte in pochi secondi. Non indossava mai un’imbracatura di sicurezza. Sapeva come corrugare la fronte e alzare la voce e dirci che, in qualità di primo ufficiale, era responsabile per noi. Aveva circumnavigato il globo con la sua barca a vela quasi a velocità da competizione, navigando attraverso ogni tipo di mare immaginabile, sopravvivendo addirittura a un’onda anomala. Era una via di mezzo tra Jack Sparrow e Han Solo, e lo avremmo seguito ovunque – attraverso il Pacifico in barca a remi, su per l’Everest in calzoncini corti, fuori da un’astronave senza tuta spaziale – purché ci fosse lui a dirci che cosa fare. Ci avrebbe potuto raccontare che si può sopravvivere nello spazio senza tuta. Basta tenere sotto controllo l’espirazione.
Ci promise che avrebbe lasciato la nave se non fosse stata sicura, e questo per noi era sufficiente. Nella sua aggressiva onniscienza, divenne il nostro riferimento marinaresco. E, immancabilmente, fu trovato un nuovo ufficiale di macchina, e un cuoco, e all’ultimo momento ogni cosa si incastrò al suo posto e finalmente, fatidicamente, improvvisamente, salpammo.
L’equipaggio di una nave che sta per uscire dalla copertura diventa diligente nell’uso del telefonino. Mandai sms agli amici e alla famiglia e condivisi una foto del ponte del Golden Gate scattata dal largo. Una foto la ricevetti anche io: la mia amica Victoria era salita sulle Marin Headlands per fotografare la nostra partenza. La guardammo sulla nave, una foto di noi stessi. Mostrava l’imboccatura della baia che si apriva dallo stretto del Golden Gate. La nostra nave era al centro dell’immagine, la nostra enorme nave d’acciaio, larga a malapena una decina di pixel, una semplice macchiolina contro il mare color cielo.
E parlai un’ultima volta con il Dottore. Mi fece fare una promessa. Mi fece promettere che se un’onda avesse cercato di scaraventarmi fuori bordo, avrei tenuto duro.
«Promettimelo», disse. «Promettimi che ti terrai, fosse anche con l’ultima unghia».

Le conversazioni sulla Grande chiazza di immondizia del Pacifico tendono a seguire uno schema ricorrente. Prima c’è un momento di illuminazione, con un’intrinseca gemma di disinformazione:
Certo! La gigantesca isola di plastica! Quella grande come il Texas!
Non è un’isola, rispondete voi.
Sì, va be’, dicono loro, moderandosi. È più un mucchio.
Li guardate storto. Sii serio, come fai ad ammucchiare qualcosa sull’oceano?
Alla fine, con molte lusinghe, fate abbandonare l’immagine dell’isola, idee improbabili su come si ammucchiano le cose, il Texas. Raggiunta la serietà, arriva la domanda inevitabile:
Si può ripulire?
Un mucchio di persone ha preso in considerazione questa domanda, e l’ha dibattuta, e ha ponderato varie strategie e varie possibilità. Da qui è emerso un accordo di vedute tra scienziati e ambientalisti, che sono lieto di sintetizzare:
Siamo seri.
Stiamo parlando dell’oceano. Persino supponendo che riusciamo a rimediare una grossa rete – chiunque sia questo «noi» – e che valga la pena di usare l’enorme quantità di carburante per trainarla tutt’attorno per le migliaia di chilometri attorno al Vortice, e che ci sia una strategia di disimpegno per cosa fare con una rete piena di spazzatura di un intero emisfero… persino ammesse tutte queste cose impossibili, rimane la questione intrattabile dei coriandoli.
Se un oggetto di plastica rimane per anni in acqua, la luce del sole lo rende fragile. Le onde cominciano a sminuzzarlo e gradualmente è ridotto in pezzi sempre più piccoli, coriandoli di plastica che sono forse l’aspetto più problematico della Chiazza di immondizia. Le reti e gli oggetti più grandi possono strangolare gli animali marini, e tappi di bottiglia e posate usa e getta possono finire nello stomaco dei piccoli albatri, ma i coriandoli rischiano di interagire con l’ecosistema a un livello più essenziale. Dato che vengono consumati come fossero cibo, hanno la capacità di introdurre tossine alla base della catena alimentare, tossine che si possono concentrare passando su per la catena fino agli animali grandi come i tonni e gli esseri umani. Nel 2009 i ricercatori della Scripps Institution of Oceanography (finanziata in parte dal Progetto Kaisei) hanno trovato plastica nello stomaco di quasi un decimo dei pesci prelevati a campione nella Chiazza di immondizia, e hanno stimato che ogni anno i pesci consumino decine di migliaia di tonnellate di plastica.
C’è molto in comune con quello che accadde a Chernobyl, dove i radionuclidi seguirono le stesse vie delle sostanze nutrienti, diventando parte integrante della vegetazione e presumibilmente degli animali. Come spiega la giornalista e scrittrice Mary Mycio, a Chernobyl «le radiazioni non sono più ‘nella’ zona ma ‘della’ zona». Forse si può dire lo stesso della plastica negli oceani. Non è solo un fatto che succede, è parte della vita. E allora, come si fa a ripulire? A rimuovere miliardi di pezzi grandi e piccolissimi dell’oceano da se stesso? Un filtro da caffè di dimensioni astronomiche? E se anche fosse, come si fa a evitare di eliminare anche ogni balena e ogni pesciolino del mare, ogni minuzzolo di plancton?
Non è stato quindi sorprendente scoprire che le organizzazioni che si occupano di questo problema tendono a evitare l’idea della ripulitura. La Algalita Marine Research Foundation di Charles Moore, che primeggia nel neonato campo degli studi sulla Chiazza di immondizia, ha un debole per la «scienza partecipativa» che si richiama alle origini della scienza come disciplina fondata da appassionati. Anziché fare ipotesi sulla ripulitura, produce ricerca sottoposta a peer review per riviste scientifiche come il «Marine Pollution Bulletin». Moore ha irriso pubblicamente l’idea di ripulire la plastica marina. In una apparizione televisiva al Late Show di David Letterman, ha rigettato le domande speranzose del conduttore sulla ripulitura. «È come svuotare il mare con un cucchiaino», ha risposto. (Letterman ha commentato che il suo atteggiamento sembrava «scostante» e gli ha proposto di andare a farsi una bevuta insieme.) Altre organizzazioni si concentrano sulla scoperta di chiazze di immondizia in altri vortici oceanici del mondo o sull’aumento della consapevolezza per combattere l’eccessivo uso della plastica.
Quindi il Progetto Kaisei è speciale. «Catturare il vortice di plastica» non è solo un motto. È una concisa dichiarazione di intenti. Non contento di lanciarsi contro il mulino a vento del tenere la plastica lontana dall’oceano, il Progetto Kaisei ha scelto di andare contro il più grande di tutti i mulini a vento: trovare un modo per ripulirlo.
La forza che anima il Progetto Kaisei è Mary Crowley, una donna di mezza età coi denti in fuori, un sorriso affettuoso e una fiducia incrollabile nella possibilità di rimuovere i detriti marini. È arrivata a immaginare il recupero della plastica oceanica come un settore commerciale vero e proprio. «Pescare plastica, per così dire, non è poi tanto diverso dal pescare pesci», mi disse, appoggiata alla battagliola di dritta della Kaisei. «E purtroppo di pesci ne abbiamo pescati fin troppi. Penso che per i pescatori sarebbe un’occupazione meravigliosa impegnarsi nella ripulitura degli oceani e dare ai pesci la possibilità di avere un ambiente più sano e ripopolare il mare».
Possiamo solo sperare che un giorno l’industria ittica si salvi pescando plastica anziché pesci. (In realtà, una proposta di sovvenzioni per i pescatori che si dedicano alla raccolta di detriti è addirittura apparsa nella Comunità Europea.) In ogni caso, si metta agli atti che all’inizio del XXI secolo, quando quasi tutti dicevano che la ripulitura è impossibile, il Progetto Kaisei manteneva in vita il sogno. Possano rivelarsi preveggenti.
La portata della missione di quest’estate, però, si è ridotta quasi fin dal momento in cui è stata concepita. In origine si era pensato a due viaggi, in rapida successione, nonché uno breve per la stampa, che sarebbe partito dalle Hawaii per raggiungere la Kaisei nella Chiazza di immondizia. Mary mi aveva addirittura parlato di rimorchiare una chiatta fino al Vortice e di reclutare dei pescherecci per aiutare a recuperare grandi quantità di rifiuti.
Queste idee erano svanite, e lo scopo della missione si era ristretto. Adesso l’obiettivo del viaggio era, secondo Mary, di usare i modelli di correnti oceaniche sviluppati dagli scienziati della National Oceanic and Atmospheric Administration (noaa) e dell’Università delle Hawaii per localizzare le zone con il maggior accumulo di plastica. Confrontando le nostre osservazioni con i modelli degli scienziati, sarebbe stato possibile mettere a punto modi efficaci per trovare la plastica, una condizione essenziale per future ripuliture. È analogo alla ricerca di zone di pesca, per i netturbini del mare di domani.
Disse che avremmo anche «studiato i metodi più efficaci per usare le navi commerciali – rimorchiatori, chiatte, pescherecci – per raccogliere davvero» o, come si esprime il comunicato stampa del Progetto Kaisei, «compiere ulteriori test sulle tecnologie di raccolta per rimuovere dall’oceano la varietà di rifiuti di plastica».
La parola «ulteriori» allude al viaggio della Kaisei dell’estate prima. Sentii vari cenni sulla tecnologia messa a punto nel contesto di quel viaggio, e in particolare «la Spiaggia», un dispositivo progettato per affrontare la questione intrattabile dei coriandoli. Alimentata passivamente dal moto ondoso, la Spiaggia permetteva all’acqua di scorrerle sulla superficie, mi spiegarono, raccogliendo i coriandoli di plastica senza la necessità di uno scomodo filtraggio e senza catturare anche forme di vita marine.
Mentre il ponte del Golden Gate spariva nell’oceano dietro di noi, Mary spiegava la sua posizione. Disse che i discorsi sul contenimento del flusso di plastica da terra non bastavano. Persino se avessimo arrestato l’apporto dagli Stati Uniti, sarebbe ancora arrivata negli oceani la plastica dal resto del mondo. E lei aveva trascorso tutta la vita sugli oceani e intorno, costruendo una fiorente società di noleggio di barche. L’oceano era il lavoro di tutta la sua vita. Sentiva di dover fare qualcosa.
«Quindi dobbiamo lavorare con molta forza per arrestare il flusso», concluse. «Ma dobbiamo anche ripulire».
Che c’era di sbagliato?

***

L’editore Laterza ha pubblicato Benvenuti a Chernobyl di Andrew Blackwell (traduzione di Daniele A. Gewurz), una specie di guida turistica attraverso i luoghi più inquinati del mondo, in cui si raccontano sette viaggi in sette luoghi che vanno da Chernobyl all’Amazzonia deforestata, al fiume più inquinato dell’India.