Intanto, all’ILVA di Taranto

Adriano Sofri aggiorna sulla situazione, tra tappe giudiziarie e nuovi incidenti

Adriano Sofri racconta su Repubblica le ultime settimane nello stabilimento ILVA di Taranto: dove è arrivato Enrico Bondi come amministratore delegato e dove, per il prossimo mese, si attendono una serie di decisioni importanti. La prima è la decisione della Corte costituzionale sulla legge cosiddetta “salva-ILVA”, mentre la seconda è un referendum cittadino su tre quesiti: tenersi l’ILVA, chiuderla tutta o chiuderne l’area a caldo.

Le estenuanti processioni ondeggianti dei perdoni scalzi e incappucciati, i pellegrinaggi ai sepolcri, uomini che venerano una madre addolorata. Poi, festa e resurrezione arrivano quasi come un complemento minore alla commemorazione. Guai a perdere la speranza, dice il vescovo, in un’omelia-arringa da pubblico accusatore: la salute viene prima di tutto, Dio maledice quelli che possono fare e non fanno. Gli accusatori pubblici laici sono provvisoriamente in silenzio, il loro tribunale ostruito dal processo di cronaca nerissima, intanto i capi dell’Ilva hanno provveduto a denunciare al competente tribunale di Potenza la giudice Todisco e i suoi custodi giudiziali. L’Ilva sciorina iniziative che danno nell’occhio. Enrico Bondi, ottuagenario campione di risanamenti (sinonimo, spesso, di liquidazioni), con una competenza siderurgica (fu lui a vendere la Lucchini al russo Mordashov, che l’ha lasciata in gramaglie) è il nuovo amministratore delegato. La famiglia Riva sottolinea come per la prima volta l’azienda passi in mani esterne. Gli analisti obiettivi sottolineano come nel frattempo la famiglia abbia prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie. Nomina di Bondi e casse svaligiate fanno pensare all’intenzione di mettere il patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti e bonifiche. Per intenderci, le bonifiche nel territorio coinvolto dalla semisecolare vicenda di Italsider e Ilva costerebbero, a un occhio onesto, un paio di centinaia di miliardi, che non è una cifra, è una amara barzelletta. I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro, che invece è una cifra, benché la si voglia far passare per una barzelletta.

(Continua a leggere sul sito Dirittiglobali.it)