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Quando vinse Tony Blair

Il ruolo, le qualità e i limiti della leadership di Tony Blair sul partito laburista e sul governo britannico, ora che se ne parla di nuovo, in un capitolo della biografia di Andrea Romano

di Andrea Romano

Una polemica con linguaggi sgradevoli da parte di un assessore del PD a Ferrara nei confronti di Nichi Vendola ha riportato in discussione il ruolo, le qualità e i limiti della leadership di Tony Blair sul partito labourista e sul governo britannico. Ma è la stessa campagna di Matteo Renzi per le primarie e il governo italiano ad avere molti tratti comuni e spiegabili con quel periodo, con vent’anni di ritardo (come avviene per molte cose in Italia). Sabato su Repubblica Michele Serra aveva suggerito ai giornali una maggiore chiarezza su Blair e il blairismo, e Andrea Romano gli aveva risposto sul Post. Ma Romano – storico all’Università di Roma Tor Vergata – è anche autore di una biografia di Blair, The Boy (Mondadori, 2005), di cui pubblichiamo il capitolo che racconta come divenne leader del Labour e primo ministro del Regno Unito.

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Nelle sue memorie, scritte nel 2003 dopo aver lasciato il governo in polemica con l’intervento in Iraq, l’ex ministro degli Esteri Robin Cook rievoca un incontro avvenuto poco tempo prima con Roy Hattersley: l’ex numero due di Neil Kinnock, con il quale Cook aveva polemizzato praticamente su tutto nel corso dei passati decenni di militanza comune. Perché Hattersley era il leader storico della destra laburista e Cook una tradizionale figura di riferimento per le diverse anime della sinistra interna. Eppure, i due vecchi compagni di partito si trovano ora a «condividere commenti e lamentele sulla leadership del governo e del partito», rimpiangendo insieme il buon tempo andato. Quando Blair non era ancora apparso all’orizzonte e le due anime tradizionali del partito – quella revisionista e quella intransigente – potevano duellare in santa pace, riconoscendosi reciprocamente il controllo di un’area precisa dell’identità laburista.

La scena descritta da Robin Cook rende bene il significato della leadership di Blair sul Labour. Che non segnò il ritorno dei revisionisti al controllo del partito dopo un periodo di «intransigenza». E non solo perché lo stesso John Smith provenisse già dalla destra laburista. In realtà, la scelta del Labour di puntare le sue carte su Tony Blair, al momento della morte di Smith, equivalse nei fatti a superare il tradizionale conflitto che aveva attraversato la sinistra britannica sin dal secondo dopoguerra.

Si trattò di un patto, politico e personale. Tra un partito che era rimasto lontano dal potere per quindici, lunghi anni e colui che poteva finalmente garantirne il ritorno a Downing Street. Perché incarnava meglio di altri, compreso Gordon Brown, la capacità dei «modernizzatori» di incalzare il thatcherismo sul suo terreno, conquistando il centro della mappa politica britannica. E perché sembrava aver trovato le parole giuste, a partire dai temi della criminalità, per riconnettersi a una comunità nazionale che non aveva ancora del tutto superato le perplessità verso il Labour.

Alcuni leader laburisti, come Clement Attlee o lo stesso John Smith, erano arrivati al vertice sospinti da un legame ombelicale con quel partito. Vi erano nati e cresciuti, sapendo rappresentarne in forma empatica gli umori e le sensibilità. Altri vi erano arrivati quasi dall’esterno, come condottieri stranieri a cui un principato pericolante affida lo scettro del potere. Furono di questo secondo tipo i leader come Hugh Gaitskell e Harold Wilson, giunti al Labour in età adulta e provenienti da altre carriere. Capaci di guidare il partito in virtù di una forza di carattere razionale piuttosto che passionale. Quella stessa forza che nel 1994 spinse i laburisti ad affidarsi a Blair. Già nelle ore immediatamente successive all’improvvisa scomparsa di John Smith, quando l’interrogativo che si posero i maggiorenti e la gran parte dei militanti del Labour fu uno solo: «Chi ha le maggiori possibilità di farci vincere le prossime elezioni?». Perché la lontananza dalle leve del potere si era fatta ormai insopportabile, patologica. Soprattutto dopo la delusione del 1992, quando la vittoria era sembrata a portata di mano. E soprattutto per un partito che non aveva mai avuto nella propria ragione sociale la testimonianza politica fine a se stessa. Almeno non dalla fine degli anni Trenta, quando aveva saputo reinventarsi come partito nazionale e di governo.

Le risposte a quella domanda convergevano su Tony Blair, dai punti più diversi del partito. L’ala radicale, ormai depurata dalle sue manifestazioni più estremistiche, vi vedeva un giovane lontano dal linguaggio tecnocratico di Wilson e Callaghan. Una figura che tra l’altro aveva saputo leggere il thatcherismo con la lente della «nuova sinistra». E dunque come nuova egemonia, per quanto regressiva, secondo la lezione venuta da «Marxism Today». Certo, non si trattava né di «un figlio del popolo» né del miglior amico dei sindacati. Ma era comunque meglio delle antiche vestali del revisionismo, che tra l’altro aveva mostrato di saper bacchettare per l’incapacità di uscire dall’ottimismo della crescita. Gli esponenti della tradizione revisionista, pur bacchettati, vi vedevano l’erede dell’ispirazione più pragmatica della leadership di Neil Kinnock, dimostrata in particolare nell’impegno a ridurre lo strapotere sindacale sul partito. Ma tutti volevano disperatamente vedervi il profilo di colui che avrebbe finalmente condotto il Labour fuori dal tunnel dell’opposizione. Forse anche John Smith ci sarebbe riuscito, pensavano i molti (ma non tutti) che avevano creduto alla sua scommessa sull’inevitabile autodistruzione dei conservatori. Ma, dopo la morte di Smith, nessuno della sua generazione appariva in grado di offrire le stesse certezze che la figura di Tony Blair ispirava in un partito disposto a molto, pur di concludere una traversata nel deserto durata ormai quindici anni.

Per tutte queste ragioni, la corsa di Tony Blair verso la leadership laburista non incontrò nessun ostacolo di rilievo. Nessuno, tranne Gordon Brown. Colui che aveva studiato da leader di partito – come forse avrebbe commentato un osservatore italiano – sin dai primi e brillanti passi di una carriera che si era sempre svolta all’insegna dell’eccellenza politica. Colui che avrebbe potuto candidarsi alla guida del Labour dopo le dimissioni di Kinnock. E che nel giro di un paio di anni si era trovato scavalcato, nelle percezioni del partito ma soprattutto del pubblico, da quel coetaneo che al suo ingresso a Westminster lo aveva scelto come tutore e che ancora nel 1992 aveva immaginato di poterne essere il numero due. Tuttavia Gordon Brown non rappresentò per Blair un ostacolo propriamente politico. Nel merito delle cose da fare, per riportare il partito al governo e per guidare il paese, i due esponenti laburisti condividevano anche i minimi dettagli di uno stesso orizzonte. Non era un caso, d’altra parte, che la coppia «Brown e Blair» (prima in quest’ordine, poi in ordine inverso) avesse rappresentato dalla fine degli anni Ottanta in avanti la punta d’attacco della squadra che mirava con più convinzione alla «modernizzazione» del partito. Pur con tutta l’indeterminatezza che quel termine portava con sé.

L’ostacolo rappresentato da Brown per la corsa di Blair era invece di natura strettamente personale. Nel senso che entrambe le personalità avrebbero potuto ambire a candidarsi alla leadership, in virtù di identiche considerazioni politiche. E sebbene tra di loro si fosse ormai consolidato un rapporto di vicinanza e famigliarità – mai trasformatosi in amicizia – era pur vero che la prospettiva finalmente realistica di guidare il partito nel quale avevano speso la parte decisiva delle loro vite rappresentava per entrambi un’ambizione difficilmente controllabile. Il rischio era dunque che nessuno dei due volesse fare un passo indietro. E che dinanzi al meccanismo implacabile dell’elezione per la leadership laburista – un autentico sistema di primarie, che non ammette camuffamenti plebiscitari – si producesse una doppia candidatura. Che avrebbe finito per dividere il campo dei «modernizzatori», rischiando di favorire un esponente della vecchia guardia. E producendo una rivalità tutta personale tra figure politiche del tutto simili, come a volte accade nei moderni partiti personalizzati.

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