Tony Blair, il proxy della sinistra italiana

Non sono sicuro, come scrive Luca Sofri, che Michele Serra abbia colto un punto di verità nel lamentarsi della superficialità con cui (non) si è discusso di Blair a proposito del giudizio di Vendola e delle contumelie a sfondo omofobico che si è tirato dietro. Non ne sono sicuro per due motivi. In primo luogo perché è lo stesso lamento di Serra ad essere condotto lungo le linee di quel sommario Bignami dell’anti-blairismo a cui attinge non solo Vendola ma gran parte dello stato maggiore di Bersani. Poi perché la nostra discussione su Blair è da anni un guardarsi della sinistra italiano allo specchio (o meglio un suo nascondersi dietro un paravento).

Certo, scrive Serra, siamo tutti nervosi e il nervosismo fa spettacolo. Certo, scrive ancora Serra, ormai si twitta solo fumo e niente arrosto. E comunque sia chiaro, conclude Serra, che la capacità di Blair è stata quella di “rendere vincente il laburismo a costo di stravolgerlo”. Mi perdoni, signor Serra: per quanto le righe della sua Amaca siano poche, potrebbe darci qualche indizio anche sommario di cosa intende per “stravolgimento del laburismo”? Basterebbe una traccia del suo pensiero su cos’era il Labour prima del 1994 e in particolare nei favolosi anni Ottanta, sulle risibili percentuali elettorali che aveva raggiunto negli anni di Margaret Thatcher, sulla capacità di un’intera nuova generazione di leader politici laburisti (e non del solo Blair) di formulare una visione della Gran Bretagna finalmente egemonica e paragonabile a quella che gli architetti laburisti del Welfare State avevano definito nel secondo dopoguerra? Difficilmente Serra potrebbe farlo, e non certo perché gli facciano difetto intelligenza e strumenti di conoscenza. Non potrebbe neanche provarci perché l’Italia è ormai l’unico grande paese europeo in cui la sinistra continua ad usare Blair come un “proxy”. Ovvero uno strumento per parlar d’altro, una leva di discussione “per procura” (anche letteralmente: “proxy” deriva infatti dall’anglo-normanno “procuracie”, a sua volta proveniente dal latino medievale “procuratia”). E di cosa discute la sinistra italiana quando (non) discute di Blair? Ovviamente di sé, della propria visione del mondo, di cosa vuole essere e soprattutto di cosa non vuole essere. Ma utilizzando un proxy argomenta la propria identità senza entrare troppo nel merito, riparandosi dietro uno schermo retorico che non richiede alcuna solida argomentazione né si espone troppo alla critica.

E qui c’è un punto di sostanza. Perché se fosse il solo Vendola (o il solo Serra) a considerare Blair un sabotatore della vera sinistra sarebbe semplice farsene una ragione. È invece legittimo porre qualche interrogativo in più quando il proxy Blair viene utilizzato in negativo dal gruppo dirigente del partito che si candida a governare l’Italia, come viene regolarmente fatto da esponenti di primissima fila del PD. Gli anni Novanta – gli anni di Blair ma anche di Clinton, di cui in questi giorni ricorre il ventennale della prima elezione alla Casa Bianca – sono infatti stati quelli in cui la sinistra italiana si è trovata non solo a governare l’Italia ma a farlo ricollegandosi per la prima volta a grandi correnti del progressismo occidentale che guidavano impegnative trasformazioni dei sistemi economici e di welfare. Non era scontato che avvenisse, perché fino ad allora la sinistra comunista e post-comunista italiana era stata tutto fuorché collegata a grandi filoni di governo europeo e occidentale. Incardinare la propria ragion d’essere sul superamento di quei modelli – come viene regolarmente fatto dal responsabile economico del PD e da altri esponenti di primo piano della leadership bersaniana – è del tutto legittimo, ma richiederebbe che si alludesse almeno ad un modello storico alternativo di governo da sinistra di grandi e complesse nazioni.

Che so: il PCI degli anni Settanta? Il centrosinistra degli anni Sessanta? Il berlinguerismo degli anni Ottanta? A meno di non immaginare che si voglia fondare una tradizione qui e ora, o meglio da domani, tornando ancora una volta al vecchio adagio dell’eccezionalismo della sinistra italiana. Il che sarebbe naturalmente uno spettacolo interessante da seguire, almeno con l’occhio dello storico.

Andrea Romano

Andrea Romano, nato a Livorno nel 1967, insegna Storia contemporanea a Roma Tor Vergata e cura la saggistica della Marsilio editori. Nel 2013 è stato eletto alla Camera dei Deputati per Scelta Civica. Twitter: @andrearomano9