Gli ultimi 56 giorni di Borsellino

Dal libro di Enrico Deaglio, la cronologia degli avvenimenti tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio, vent'anni fa: 29 giugno 1992

Il nuovo libro di Enrico Deaglio – Il vile agguato (Feltrinelli) – è dedicato alle indagini sulla strage di via D’Amelio a Palermo in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino assieme a cinque agenti della sua scorta, il 19 luglio 1992. Il libro si conclude con una “succinta cronologia degli ultimi cinquantasei giorni di vita di Paolo Borsellino, compresi avvenimenti che avevano a che fare con lui, ma di cui non era a conoscenza”. Il Post pubblicherà in sequenza, assieme al secondo capitolo del libro, la successione di quegli eventi, a vent’anni di distanza.

Palermo, 29 giugno
I giovani sostituti procuratori Alessandra Camassa e Massimo Russo (che hanno lavorato con Borsellino alla procura di Marsala) vanno a trovare Borsellino nel suo ufficio al palazzo di giustizia di Palermo. Il giudice lascia la scrivania dove era seduto, si sdraia su un divanetto a due posti e comincia a piangere. Dice: “Non posso pensare che un amico mi abbia tradito”. Tra i singhiozzi aggiunge poi: “Qui è un nido di vipere”. 

Camassa e Russo sono stati sentiti nel 2009 dalla procura di Caltanissetta sull’episodio, che hanno naturalmente confermato. Non hanno però saputo aggiungere molto di più. Alessandra Camassa pensò allora “a una persona adulta e autorevole, […] a un ufficiale dei carabinieri”. Quel nome è destinato, con ogni probabilità, a non essere mai rivelato. Così come la natura del tradimento. Ha tradito la sua fiducia? Ha tradito la magistratura? L’Arma? Lo stato? O ha tradito lui, consegnandolo a Cosa nostra? Restano le suggestioni evangeliche e l’immagine di un uomo che piange. Nei venti giorni successivi, prima della sua uccisione, Borsellino aggiungerà altri nomi, e importanti, all’elenco dei traditori.

Roma – Palermo, fine giugno
Le trattative tra i carabinieri del colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino si infittiscono. Nell’appartamento romano dell’ex sindaco (via Sebastianello, dietro piazza di Spagna) i carabinieri sono ormai di casa; lì è anche passato il famoso latitante Bernardo Provenzano, che si presenta come l’ingegner Lo Verde. Il figlio minore di “don Vito”, Massimo, fa da ambasciatore, incontrando emissari di Riina e Provenzano in chiese, appartamenti e pasticcerie alla moda come il Caflish di Mondello. Si tratta sulle richieste di Cosa nostra, il famoso “papello”. Vito Ciancimino si propone come il nuovo mediatore tra stato e mafia, al posto del defunto Lima. L’uomo, figlio del barbiere di Corleone, è tipo untuoso, ma collerico, sospettoso e ricchissimo. Registra gli incontri con i carabinieri con un Sony nascosto; usa guanti di lattice quando maneggia i documenti della trattativa, che peraltro tiene ordinati in cassaforte.

A vent’anni di distanza, lo scandalo è solo questo. Che ci siano voluti vent’anni per sapere che una trattativa c’era stata. Non solo, ma che i carabinieri non la tennero per nulla segreta, raccontandola (anche se per sommi capi) al ministro dell’Interno Nicola Mancino, al ministro della Giustizia Martelli, al futuro presidente della commissione antimafia Luciano Violante, perché tutte le parti politiche fossero avvertite. Effettivamente, l’unico che venne tenuto all’oscuro fu proprio Borsellino, al quale invece continuavano a sussurrare nell’orecchio le notizie della sua morte prossima, e della sua ineluttabilità.

Palermo, 29 giugno
Paolo Borsellino riceve a casa sua un giovane magistrato di Agrigento, per un colloquio molto riservato.

Questa vicenda ha a che fare con uno dei possibili moventi della strage. Era cominciata diversi mesi prima, quando il maggiore dei carabinieri Giuseppe De Donno – giovane, molto preparato, brillante, Giovanni Falcone lo teneva in grande considerazione – aveva preparato un voluminoso dossier insieme al colonnello Mario Mori, il suo capo al Ros. Il titolo era abbastanza neutro, “Mafia e appalti”, ma il contenuto era esplosivo.

L’indagine è un’iniziativa autonoma del Ros, che si lamenta di non trovare udienza né alla procura di Palermo, né sui giornali. Che cosa dicono i carabinieri? Che tutti gli appalti pubblici siciliani (strade, ospedali, fogne, case, scuole, asili, svincoli, bretelle, piloni, ponti, porti, porticcioli, caserme, palazzi di giustizia, smaltimento rifiuti, illuminazione: la principale voce di spesa pubblica italiana) sono governati da una “cupola” che vede insieme aziende (i cementieri, i contractor), partiti politici e Cosa nostra. Tra i più attivi, i grandi costruttori agrigentini Salamone e Micciché, quest’ultimo a capo di Confindustria Sicilia, che guidano il più grande affare di corruzione italiano, di fronte al quale la milanese Mani pulite impallidisce per quanto è piccola. Coinvolti tutti i partiti politici, compreso il Pds attraverso le cooperative di Ravenna. Particolare imbarazzante: il fratello del costruttore Filippo Salamone è il sostituto procuratore di Agrigento Fabio Salamone, che ha in mano le più importanti inchieste antimafia della provincia, e che in pratica dovrebbe arrestare suo fratello.

L’esistenza di questo dossier è sulla bocca di tutti. Si dice che sia mafiosi sia politici siano disposti a pagare, e molto, per sapere che cosa c’è scritto. Detto molto semplicemente, se Borsellino non fosse stato ucciso, avrebbe dato sicuramente corso alle indagini, con la conseguenza di far saltare il già traballante “sistema Italia”. Secondo una scuola di pensiero, quell’inchiesta venne sì aperta negli anni successivi, ma privata della sua forza destabilizzante. (Quella sera, nel suo studio, il giudice Fabio Salamone e Borsellino non si sa quello che si dissero. Ma il pm di Agrigento ricevette da Borsellino il consiglio di chiedere al trasferimento e lasciare la Sicilia).

Palermo, 29 giugno
Paolo Borsellino si mostra molto interessato agli investimenti mafiosi a Milano. E pensa che i “colletti bianchi” del riciclaggio siano il nuovo anello debole. Ne parla con il “Corriere della Sera”. Due giornalisti francesi gli hanno fornito altri elementi. Riprende in mano un vecchio rapporto della Criminalpol (del 1983) sulla colonia siciliana a Milano.

Il magistrato ha sviluppato una vasta conoscenza sul potere economico e finanziario della mafia siciliana. Conosce la vecchia filiera che ha portato i soldi della mafia a Milano, quella guidata dal finanziere Paolo Alamia e dagli uomini dell’ex sindaco Ciancimino, che hanno investito soprattutto nell’edilizia. Conosce bene l’enormità fi- nanziaria dei proventi derivanti dal traffico di droga e dal riciclaggio e il ruolo che vi hanno “i colletti bianchi”. Sal Amendolito, l’italoamericano; Franco Della Torre, ticinese; Pino Lottusi, riciclatore a Milano per conto dei Madonia e dei narcos colombiani; quest’ultimo è il nome che fa al giornalista Gianluca Di Feo del Corriere.

Altri nomi e altri canali li ha sicuramente memorizzati: Vittorio Mangano, trafficante di droga, da tempo trasferitosi sotto la Madonnina; i gemelli Dell’Utri, parte della colonia mafiosa emigrata; Filippo Alberto Rapisarda, titolare a Milano di una sede di rappresentanza di Cosa nostra; Oliviero Tognoli, ufficialmente industriale del tondino, bresciano, in realtà uno dei più attivi riciclatori dei proventi dell’eroina. Tognoli è protetto dall’ex capo della Mobile di Palermo, ora numero tre del Sisde, a Roma, il dottor Bruno Contrada. Glielo ha detto il suo amico Giovanni Falcone, perché glielo ha rivelato lo stesso Tognoli, quando lo ha interrogato in Svizzera, insieme alla collega Carla Del Ponte.

Per questo interesse nella vicenda, quando due giornalisti francesi, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo gli avevano chiesto un’intervista per un programma televisivo francese, I padrini d’Europa, aveva accettato volentieri. Borsellino se lo ricorda benissimo, mancavano appena quarantotto ore all’attentato di Capaci. I due francesi volevano parlare con lui di una storia poco nota: i rapporti tra l’industriale milanese Silvio Berlusconi (il popolarissimo padrone del Milan e di Canale 5), il suo factotum Marcello Dell’Utri e un boss mafioso, tale Vittorio Mangano, che abitava addirittura nella villa di Arcore. Borsellino aveva preparato i documenti, e concesso un’intervista televisiva destinata a diventare molto famosa. Nell’intervista televisiva spiega il canale di investimento mafioso a Milano, ironizza su Mangano che in telefonate intercettate parla di “ricevere cavalli in albergo”, ben sapendo che i cavalli sono partite di droga; e soprattutto annuncia che, per quanto sappia, anche se non segue lui il caso, esiste un’indagine aperta alla procura di Palermo e, prevede Borsellino, forse in ottobre ci saranno degli atti pubblici…

Ora, il lettore vorrei trascinarlo davvero in quegli scenari alla Stephen King, quei piccoli spostamenti che possono cambiare il corso della storia, per chiederci perché avvenimenti prevedibili e logici invece non sono accaduti.
Il primo: i due giornalisti francesi, dopo la morte di Paolo Borsellino, ben sapendo di avere in mano un documento clamoroso, lo rendono pubblico; anzi, più precisamente, lo vendono alla televisione italiana. Invece questo non accade.
Il secondo: l’intervista diventa di valore inestimabile quando Berlusconi annuncia la sua discesa in campo nel gennaio 1994. Data l’enorme popolarità del magistrato ucciso, vederlo dire in tutta tranquillità, e in tempi non sospetti, che il candidato premier è un socio in affari di Cosa nostra, è in grado di distruggere qualsiasi campagna elettorale.
Anche questo, però, non accade.
(Ora l’immaginario lettore potrà, se vuole, scrivere un romanzo in cui fa avvenire queste cose non accadute e cambiare, se non quella del mondo, almeno la piccola storia recente italiana.)