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La questione di Napolitano e Mancino

Perché l'ex ministro è accusato di pressioni sui giudici e come le accuse sono arrivate fino al Quirinale

Negli ultimi giorni sui giornali si parla con rinnovata insistenza della cosiddetta “trattativa tra Stato italiano e mafia” in seguito agli attentati del 1992 e del 1993: l’ipotesi dei magistrati responsabili delle inchieste – a partire dalle dichiarazioni di alcuni mafiosi – è che lo Stato abbia cercato di giungere ad un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41 bis, un provvedimento di “carcere duro” per combattere le associazioni mafiose.
Oltre alle inchieste che proseguono ancora oggi sulla presunta trattativa, c’è stato un caso di cui si è parlato molto che ha coinvolto l’ex senatore ed ex ministro degli Interni ed ex presidente del Senato Nicola Mancino e l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Mancino, secondo alcune ricostruzioni comparse sulla stampa italiana in questi giorni, avrebbe chiesto aiuto a Napolitano, il quale si sarebbe mosso per lui contattando il procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Vediamo quello che si sa per ora, in dettaglio.

Le contraddizioni
Secondo le ricostruzioni di vari quotidiani italiani e le intercettazioni rese note, l’ex ministro degli Interni Mancino sarebbe stato “tormentato” (dice lui) dagli sviluppi di un processo legato all’inchiesta Stato-Mafia, quello contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato dalla magistratura di Palermo di favoreggiamento nella mancata cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano. Per questo procedimento, Mancino ha deposto davanti ai giudici da testimone. Il 24 febbraio scorso, però, il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo ha detto che erano emerse

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evidenti contraddizioni tra diversi esponenti delle istituzioni, riferiscono cose completamente diverse, quindi qualcuno mente.

Il qualcuno che secondo i magistrati aveva mentito andava praticamente ricercato tra tre persone: l’ex ministro degli Interni (e predecessore di Mancino) Vincenzo Scotti, l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, e appunto Mancino, tutti ministri nel periodo del 1992-1993 (governo allora presieduto da Giuliano Amato). Le loro deposizioni avrebbero diverse incongruenze, principalmente due:

1) Scotti sostiene che avrebbe voluto continuare a essere ministro degli Interni anche dopo il 28 giugno 1992 (quando lo sostituì Mancino). Mancino dice che invece fu proprio Scotti a rifiutare quella carica.

2) Martelli dice di aver incontrato Mancino nel luglio del 1993, il quale si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate della squadra speciale dei ROS (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri proprio nei giorni in cui l’allora capo dei ROS Mario Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno (entrambi indagati nella trattativa Stato-Mafia) avrebbero incontrato in segreto don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo e condannato per mafia. Mancino ha smentito questa ricostruzione di Martelli.

Inoltre, un altro motivo di preoccupazione per Mancino sarebbe stato il suo presunto incontro con il giudice Paolo Borsellino il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento al Ministero degli Interni, sul quale i giudici stanno ancora indagando. Se Mancino infatti aveva accennato all’incontro durante il processo Mori, poi successivamente ha ritrattato, smentendo l’incontro con Borsellino. Si tratta di un passaggio chiave nell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, in quanto Borsellino sarebbe stato ucciso solo 18 giorni dopo, e secondo i magistrati c’entra il suo essersi opposto alla trattativa.

I timori di Nicola Mancino
Mancino a questo punto, secondo quanto emerge dalle intercettazioni, avrebbe temuto dei confronti sia con Scotti che con Martelli davanti ai giudici. Nelle intercettazioni si definisce “tormentato” e “uomo solo”. Così, nei giorni successivi alle dichiarazioni del pm Di Matteo, ha chiamato con insistenza il Quirinale per parlare con il consigliere giuridico del presidente Napolitano, Loris D’Ambrosio, e chiedergli come poter evitare quei confronti. D’Ambrosio, nonostante una certa disponibilità nei suoi confronti (i due si conoscono bene) sembra però molto cauto e spiega che in questi casi bisogna aspettare le decisioni dei pubblici ministeri. Una cosa importante: in questo momento Mancino non era ancora indagato per falsa testimonianza (lo sarà solo il 9 giugno), bensì veniva ancora considerato dai giudici un semplice testimone.

Come scrive Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera di oggi:

Mancino immaginava di intervenire su Messineo, il procuratore di Palermo, e sul procuratore nazionale antimafia Grasso, ma D’Ambrosio spiegava che i pm in udienza sono autonomi, non rispondono al loro capo. «L’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale antimafia», aggiungeva. Lui aveva potere di coordinamento sulle inchieste tra i diversi uffici, e della trattativa si stavano occupando, oltre ai magistrati palermitani, anche quelli di Caltanissetta e Firenze. Ma Mancino era preoccupato dai possibili confronti in tribunale.
«Il collegio lì è equilibrato – sosteneva -, come ha ritenuto inutile quello con Tavormina (l’ex capo della Dia che aveva smentito Martelli, ndr ) potrebbe rigettare per analogia». D’Ambrosio: «Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…». E ancora: «Più facile è parlare con il pm…». Mancino concluse che bisognava far intervenire Grasso: «Io gli voglio parlare perché sono tormentato». Poi accadde che i pm chiesero i confronti ma il tribunale decise di non farli.

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