Le leggi a tempo
Michele Ainis propone sul Corriere una soluzione al modo "talebano" di affrontare le questioni politiche in Italia: fare leggi flessibili, provvisorie, verificabili
Il costituzionalista Michele Ainis fa oggi sul Corriere una proposta ardita – ma forse neanche troppo – e interessante, allo scopo di dare soluzione al dibattito politico italiano su certi temi e ai suoi toni da campo di battaglia.
C’è un che di talebano nel nostro modo d’affrontare le questioni. O di qua o di là, senza vie di mezzo. In mezzo c’è solo un campo di battaglia, percorso da furori ideologici, intransigenze, spiriti belluini. Vale per i rapporti di lavoro, come la riforma dell’articolo 18. Per le materie politiche, come la nuova legge elettorale, dove è in corso una sfida all’arma bianca fra seguaci del proporzionale e del maggioritario. Per i temi etici, come il testamento biologico o le nozze gay. Uno vince, l’altro perde.Il bottino del vincitore è sempre rinfoderato in una legge, tagliente come lama di coltello sulla gola dell’esercito sconfitto.
Da qui norme rifiutate da una buona metà della popolazione, e perciò scarsamente rispettate. Il seme dell’illegalità trova anche in questo il suo terreno di coltura, in un sistema di regole percepite come ingiuste, vessatorie. Da qui, inoltre, un ordinamento punteggiato da miriadi di corpi contundenti, perché le leggi sono troppe, come i combattimenti ingaggiati dai partiti. Da qui infine lo svuotamento della funzione stessa della legge. La democrazia è compromesso, diceva Kelsen. La sua principale istituzione — il Parlamento — serve per l’appunto a favorire il dialogo fra le parti avverse. Sicché ogni legge dovrebbe riflettere questa capacità d’ascolto, di comprensione delle ragioni altrui.
C’è modo di siglare una tregua fra i guerrieri del diritto? Se non sul merito dei singoli provvedimenti normativi, potremmo forse ottenerla rovesciando il metodo, le procedure stabilite dalle leggi. E ponendole al servizio di tre nuove virtù cardinali: flessibilità, provvisorietà, verificabilità. È il caso, per esempio, della correzione dell’articolo 18. Quali argomenti la sorreggono? Rimuovere un ostacolo agli investimenti produttivi, liberalizzare il mercato del lavoro per moltiplicare le assunzioni, dicono i suoi sostenitori. Balle, ribattono i difensori dello status quo: l’articolo 18 non c’entra un fico secco con la piena occupazione. In questi termini non ne usciremo mai, salvo consultare il sindacato degli astrologhi prima di battezzare la riforma. Ma potremmo uscirne fissando una data di scadenza alla nuova disciplina: un anno, meglio due. E chiedendo nel frattempo all’Istat di certificarne gli effetti sulla cifra dei disoccupati. Se diminuiscono, la riforma viene adottata in pianta stabile; altrimenti le lancette dell’orologio tornano all’indietro.