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  • Venerdì 30 marzo 2012

I tibetani che si danno fuoco

Sono trenta dall'anno scorso a oggi, in mezzo a mesi di proteste e manifestazioni, ma la comunità internazionale non pare avere intenzione di occuparsene

Dall’inizio del 2011 a oggi 30 tibetani – uomini e donne, monaci e laici – si sono dati fuoco per protestare contro la repressione cinese in Tibet. L’ultimo caso è quello di Jamphel Yeshi, un tibetano di 27 anni in esilio in India che il 26 marzo si è cosparso di benzina e si è dato fuoco a New Delhi, pochi giorni prima della visita nel paese del presidente cinese Hu Jintao. Le foto in cui è ritratto mentre corre col corpo incendiato e mentre le persone cercano di spegnere le fiamme avvolgendolo nelle coperte hanno fatto il giro del mondo.

Yeshi ha riportato ustioni sul 97 per cento del corpo ed è morto due giorni dopo in ospedale. In un lettera trovata dopo la sua morte aveva scritto «Noi (tibetani) chiediamo la libertà di religione e cultura. Chiediamo la libertà di usare la nostra lingua. Chiediamo gli stessi diritti che hanno le altre persone nel mondo». In India ci sono state molte altre proteste contro la visita di Hu, ma sono state represse dalla polizia indiana provocando anche molte proteste, come l’editoriale del Times of India per cui la libertà di manifestare pacificamente dev’essere un diritto non negoziabile in una democrazia come l’India.

Le morti di queste persone attestano la gravità della situazione in Tibet, che si è fatta ancora più disperata dopo le rivolte del 2008 e la brutale repressione che n’è seguita. Molti giornalisti e analisti hanno anche criticato la scarsa attenzione internazionale dedicata alle proteste in Tibet: «Una persona che si dà fuoco in Tunisia scatena la Primavera araba, ma 30 persone che si danno fuoco in Tibet hanno ricevuto scarsa attenzione internazionale», scrive per esempio Isabel Hilton sul Guardian. Shobhan Saxena si chiede sul Times of India: «Perché i leader del mondo restano in silenzio sui crimini contro i tibetani? Perché il mondo ha abbandonato i tibetani al loro destino?»

Daniel Politi sul New York Times riporta le analisi di alcuni giornali internazionali sulla situazione in Tibet. Secondo l’Economist, per esempio, la Cina non ha motivo di essere preoccupata da eventuali sanzioni internazionali: a causa della crisi economica infatti l’Occidente è più interessato a mantenere buoni rapporti con la Cina anziché contrastarla su problemi interni come la repressione in Tibet. Altri giornalisti non sono invece d’accordo e sostengono che le rivolte tibetane siano diventate un problema che la Cina non è in grado di gestire: secondo Venky Vembu del First Post di Mumbai «il vuoto creato dall’esilio del Dalai Lama può essere occupato da giovani estremisti» e secondo B. Rama dell’indiano Daisy Pioneer «la polizia cinese è abituata a reprimere violentemente le rivolte ma non sa come gestire un movimento così diffuso». Altri giornalisti sottolineano che il mondo è abituato a immaginare i tibetani come monaci pacifici e pronti alla lotta non violenta, ma che dopo anni di repressione ed esilio molti tibetani sono diventati frustrati, aggressivi e arrabbiati.

L’ultima grande insurrezione in Tibet è scoppiata a Lhasa, nella capitale, e risale a marzo 2008, poco prima delle Olimpiadi in Cina. Nella repressione della polizia cinese sarebbero morte almeno cento persone. Il 10 marzo 2011 Dharamsala, la città indiana al confine col Tibet che è sede del governo in esilio, Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, ha annunciato la rinuncia al potere temporale, dunque alla sua leadership politica. Poco dopo si sono svolte le elezioni del governo tibetano (non riconosciuto dalla Cina né da nessun altro paese) che hanno portato alla vittoria Lobsang Sangay, il primo laico a diventare Kalon Tripa, primo ministro.

Il Tibet, secondo il governo in esilio, ha un’estensione di 2,5 milioni di chilometri quadrati, un quarto dell’intera Cina e comprende le grandi aree che per secoli sono state sotto l’influenza culturale tibetana. Per la Repubblica Popolare Cinese, il Tibet corrisponde invece alla Regione Autonoma del Tibet limitata all’altipiano e con un’estensione di 1,2 milioni di chilometri quadrati. Il potere esercitato dalla Cina è stato contestato fin dal 1950 quando, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare cinese, le truppe di Mao Zedong invasero il Tibet centrale e imposero la loro autorità. Questo portò ai primi episodi di resistenza che esplosero il 1959 nella rivolta di Lhasa cui parteciparono anche i monaci buddisti. La repressione della Cina fu violentissima e vennero uccise decine di migliaia di tibetani. Il 17 marzo 1959 il Dalai Lama abbandonò Lhasa e cercò asilo politico in India. A partire dal 1959 iniziarono le riforme democratiche imposte dalla Cina alle istituzioni religiose buddiste che portarono allo spopolamento dei monasteri, all’arresto di molti monaci e al saccheggio delle loro proprietà. Dal 1962 circa settantamila tibetani si sono rifugiati in Nepal e in India.

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