“Salviamo i nostri marò!”, ma da cosa?

Antonio Menniti Ippolito sollecita un atteggiamento meno isterico sulla faccenda dei marinai arrestati in India, e invita a occuparsi di un aspetto che in Italia non ha sollevato quasi nessuno

Antonio Menniti Ippolito è un docente universitario e insegna storia all’università di Cassino. Sul sito della Treccani ha scritto un articolo sulla faccenda dei due marinai italiani arrestati e tutt’ora detenuti in India perché accusati di avere ucciso due pescatori all’interno delle acque territoriali indiane (per quanto secondo la versione degli italiani, apparentemente più affidabile e documentata di quella indiana, la nave su cui si trovavano i marinai al momento della sparatoria navigava in acque internazionali). Menniti Ippolito si pone una questione che in queste settimane ha faticato a farsi largo nel dibattito pubblico italiano, e cioè che non è irrilevante il fatto che i due marinai italiani abbiano o no ucciso i pescatori indiani, e a maggior ragione dovrebbe saperlo un paese che in simili circostanze – il disastro del Cermis, il caso Calipari – ha reclamato giustizia.

La vicenda dei soldati italiani messi sotto processo in stato di custodia nello stato indiano del Kerala ha ingenerato una spirale di ricostruzioni approssimative, di isterie, di dietrologie, di strumentalizzazioni e complottismi. Scorriamo brevemente qualcuno di questi elementi.

Il nostro governo è stato accusato di contare poco nella scena internazionale. La vicenda rappresenterebbe dunque una mortificazione per il nostro paese. L’appunto può ritenersi fondato e la debolezza diplomatica dell’Italia è però piuttosto fatto di lunga durata, antico frutto di disattenzione, improvvisazione, assenza di strategie. Nello specifico dell’India una decina di anni fa un ambasciatore indiano in Italia diceva delle difficoltà, se non delle mortificazioni, che incontrava quando arrivava dal suo paese una delegazione politica o economica. Il diplomatico cercava di organizzare incontri ai massimi livelli, ma a questi poi partecipavano inevitabilmente in effetti funzionari minori che non avevano nulla da dire e da fare. Negli ultimi dieci anni, decisivi per il successo del paese asiatico, tra un pasticcio e l’altro (quello di una visita di stato in India annullata all’ultimo momento per motivi mai chiariti), una sola lodevole iniziativa, celebrata anche dalla stampa indiana, rappresentata dalla massiccia missione imprenditoriale e istituzionale a New Delhi, Mumbai e Chennai, che si è svolta tra il 5 e il 13 marzo 2007. Nessun paese si era mai presentato in India con una delegazione siffatta, il che, si ripete, fu enormemente apprezzato. Poi il nulla, o quasi. L’ultima visita ufficiale di un primo ministro indiano risale alla notte dei tempi; si ricorda invece quella di un ministro degli esteri che anni fa sottolineò, in una conferenza nella sala del cenacolo della Camera, come sembrava che agli italiani interessassero solo i lavoratori del latte del Punjab che svolgevano più del 50% delle mansioni legate alla produzione del parmigiano, e non altre forme di know how importabili dall’India. Non dunque ingegneri, esperti di software, ecc. Anch’egli sostenne di avere l’impressione che di fronte ad imprenditori indiani che venivano a chiedere collaborazione per grandi intraprese, gli italiani ritenessero erroneamente che si trattasse di ricerca di forme di elemosina e non concepivano che i grandi progetti in atto in India, allora soprattutto la costruzione di un’immensa rete autostradale, potessero rappresentare un’opportunità in primo luogo per loro stessi.

(continua a leggere sul sito della Treccani)

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