Il peggio è passato?

L'articolo di copertina dell'Economist di questa settimana si chiede se sia davvero iniziata la ripresa economica, e la risposta non è semplicissima

L’articolo di copertina dell’Economist di questa settimana si chiede se gli ultimi segnali incoraggianti dalle economie mondiali, in particolare dall’Europa e dagli Stati Uniti, possano bastare a farci dichiarare finita la crisi economica e iniziata la ripresa.

Negli Stati Uniti proseguono da settimane le buone notizie sull’occupazione, con la creazione di molti nuovi posti di lavoro e il ritorno all’impiego di molte persone che erano “scoraggiate” durante la crisi: complessivamente, a dicembre, gennaio e febbraio sono stati creati 734.000 posti di lavoro, il miglior risultato dall’aprile 2006, e negli ultimi sei mesi il tasso di disoccupazione è sceso di 0,7 punti percentuali, all’8,3 per cento. Per il 2012 ci si aspetta una crescita del PIL intorno al 2,5 per cento.

In Europa, la ristrutturazione del debito greco (che l’Economist definisce senza mezzi termini “il primo default sovrano in un’economia sviluppata in più di 60 anni”) è stata finalmente approvata, e l’impressione è che il disastro che sembrava imminente per la zona dell’euro alla fine dello scorso anno sia stato evitato. Spinti da queste buone notizie, i mercati azionari a livello globale hanno registrato crescite a doppia cifra.

Ma l’Economist ricorda che la crescita globale nel 2012 sarà probabilmente più bassa di quella del 2011, dato che la recessione in Europa non è ancora finita e che le economie emergenti hanno rallentato i loro tassi di crescita.

Troppo spesso, dalla crisi finanziaria del 2008, le speranze degli investitori per una crescita solida e durevole si sono infrante, a causa della sfortuna (come un’impennata dei prezzi del petrolio), di cattive scelte politiche (troppa austerità di bilancio troppo in fretta) o del doloroso rendersi conto che le riprese dopo i crolli finanziari sono generalmente deboli e fragili. Parecchie cose possono ancora andare male.

Tra le cose che possono andare male, la situazione europea dà le maggiori preoccupazioni: il peggio sembra passato soprattutto grazie all’enorme prestito alle banche che la Banca Centrale Europea ha fatto in due round dopo l’inizio del mandato di Mario Draghi a novembre (l’ultimo prestito è stato pochi giorni fa). Solo questa misura ha evitato il disastro, ma non si tratta di una soluzione definitiva.

L’Europa è comunque rimasta con una “leggera recessione” che solo la Germania sembra essere stata capace di evitare del tutto, e da cui non si vedono vie d’uscita facili e immediate: molti stati hanno dovuto adottare misure di austerità (alzare le tasse, tagliare il numero di dipendenti pubblici, abbassare le pensioni) che deprimono l’economia, e le riforme strutturali impiegheranno tempo ad avere effetti concreti sulla crescita.

La catastrofe, insomma, è stata evitata, almeno per ora, e “le ragioni per un modesto ottimismo sono solide”. Ma l’Economist dice che una ripresa duratura è ancora incerta, e come va ripetendo da molto tempo nei suoi editoriali, chi deve agire adesso sono i politici, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Per motivi diversi, non sembra che i suggerimenti del settimanale siano al centro dell’agenda politica né in questo continente né nell’altro: da un lato la scadenza elettorale fa sì che difficilmente un presidente in cerca di rielezione approvi tagli sostanziosi alla spesa pubblica, dall’altro la costruzione di nuove istituzioni europee è apparsa solo in qualche vaga dichiarazione dei capi di stato dopo il momento più drammatico della crisi alla fine dello scorso anno.

Per una ripresa permanente, la zona dell’euro ha bisogno di costruire istituzioni che permettano una condivisione di responsabilità nei debiti sovrani, bilanciata con la disciplina fiscale. La priorità degli Stati Uniti dovrebbe essere quella di mettere insieme un piano a medio termine che avvii la riduzione del deficit di bilancio senza spegnere la ripresa. Sfortunatamente, non c’è nessuna possibilità che questo verrà fatto prima delle elezioni presidenziali di novembre.