Il reportage di Paolo Giordano da Fukushima

A un anno dal terremoto e dal disastro nucleare, lo scrittore racconta su "La Lettura" il suo recente viaggio in Giappone

Due settimane fa lo scrittore italiano Paolo Giordano ha scritto un lungo reportage dal Giappone in occasione dell’anniversario del terremoto dell’anno scorso e del conseguente disastro nucleare di Fukushima. Giordano, che si definisce un “nuclearista tormentato”, torna a Fukushima, l'”isola della felicità” secondo l’etimologia della parola, anche se si allontana subito dalla zona proibita mentre oscillano i valori di radioattività nell’aria, tra cimiteri sepolti dalla neve, paura mai sopita, i paragoni con Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami, il culto delle ciabatte, cachi che nessuno ha il coraggio di raccogliere e Minamisoma, la città amministrata da un sindaco comunista tagliata in due dalle misure di sicurezza dopo il disastro.

Un anno fa, l’11 marzo del 2011, un terremoto del nono grado Richter squassò la crosta sottomarina una sessantina di chilometri al largo del Giappone. L’onda anomala provocata dalla scossa investì le regioni costiere del Tohoku, inghiottendo porti, città, parcheggi, scuole, alberi, stabilimenti industriali, cimiteri, persone e alcune fra le più belle spiagge del Paese. In certi punti l’onda raggiunse l’altezza imponente di 40 metri. Come a dire, per chi vi assistette: l’oceano Pacifico tutto intero che si rovescia dal cielo sulla mia testa.

Nell’impianto nucleare ad acqua leggera di Fukushima Dai-ichi, che produceva incessantemente 30.000 GWh ogni anno dal 1971, ciò che la scossa sismica aveva iniziato venne completato dallo tsunami. L’interruzione del meccanismo di raffreddamento portò alla fusione parziale o completa dei noccioli di tre reattori, e al danneggiamento sostanziale degli altri. Nei campi seminati attorno alla centrale vennero presto rilevate concentrazioni preoccupanti di iodio-131, cesio-134, cesio-137 e cobalto-58, il genere di condimento che nessuno gradirebbe nella propria insalata. Le notizie furono dapprima centellinate dalla Tokyo Electric Power Company, che si guadagnò un’antipatia planetaria e infine dovette capitolare e ammettere l’entità del problema. Per un paio di settimane il mondo seguì l’escalation del Disastro, familiarizzando con nuove unità di misura, grandezze chimico-fisiche e presenze demoniache che fino a quel momento aveva opportunamente trascurato.

Tre mesi più tardi l’Italia bloccava, per la seconda volta, il piano di sviluppo per la produzione di energia nucleare sul proprio territorio, con un referendum abrogativo che raccolse il 57,01% degli aventi diritto al voto e il 94,05% di schede grigioline recanti una grossa croce a matita sul «Sì». Una di quelle schede era la mia.

Un nuclearista tormentato
Tanto vale che lo ammetta subito: ero un nuclearista. Si tratta, me ne rendo conto, di una posizione largamente impopolare e magari posso aggiungere a mia parziale discolpa ch’ero favorevole al nucleare senza esserne molto convinto. Esiste un elenco lungo e imbarazzante di Grandi Questioni nei confronti delle quali a un certo punto ho abbracciato questo o quel partito senza spiegarmi esattamente il perché. L’elemosina. Certe varianti della fecondazione eterologa. Il diritto d’autore nell’era del digitale. Il nucleare, per l’appunto. Ogni volta che oso immergermi tutto quanto nella complessità spinosa di uno di questi problemi, ne riemergo carico di istanze contraddittorie che mi appaiono ugualmente valide. In quei momenti sono così volubile che qualunque persona dotata di un minimo di eloquio o di semplice carisma è in grado di portarmi in un batter d’occhio da un’idea a quella diametralmente opposta. Qualcosa che assomiglia a ruzzolare giù per un pendio e cercare di attaccarsi a ogni possibile appiglio. Però, di base, sotto sotto, direi ch’ero favorevole al nucleare e un po’ lo sono ancora. (Chi, nel leggere un’ammissione di colpa tanto vergognosa, si è sentito avvampare, potrebbe a questo punto muovermi la prima, pertinente obiezione: se non sei convinto, perché accidenti ti dichiari favorevole e non, prudentemente, contrario? Gli rispondo con candore disarmante: perché mi viene così).

Un anno fa avrei accampato motivazioni più solide, che tuttora non mi sembrano prive di fondamento. Numero uno: nutro un sospetto pernicioso nei confronti delle fonti rinnovabili, solare e eolico su tutte. A giudicare dalla fatica nel reperire dati univoci sulle loro reali potenzialità — qualcosa di più credibile del «basterebbe ricoprire di pannelli fotovoltaici tutta la Sicilia e non avremmo più niente di cui preoccuparci» —, a giudicare dalla confusione che regna in quel settore, ho la netta impressione che vento e luce non saranno sufficienti a saziare la nostra fame mostruosa di energia. Almeno per un bel po’. Numero due: mi sembra che non si possa, che sia sbagliato e masochistico, ignorare il contenuto vibrante di certi atomi instabili come l’uranio arricchito, fingendo di non averlo mai scoperto. Ogni via esplorabile è anche una via da esplorare, credo, a meno che non contraddica in modo lampante qualche principio etico di primaria importanza, cosa che non mi risulta nello specifico. Numero tre: che il nucleare sia suscettibile di miglioramento, come quasi tutto d’altronde, è fuori discussione, ma perché segargli le gambe? Non sarà che tendiamo a essere troppo emotivi e manipolabili sull’argomento, per delle ragioni che hanno a che fare, sì con il nucleare, ma non con quel medesimo nucleare?

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foto: TOSHIFUMI KITAMURA/AFP/Getty Images