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  • Venerdì 26 agosto 2011

I racconti dei giornalisti rapiti

Corriere della Sera, Stampa e Avvenire pubblicano gli articoli dei quattro giornalisti italiani sequestrati mercoledì e liberati ieri

A rebel steps on the green Libyan flag laying on a street of the capital Tripoli on August 25, 2011, as rebel forces root out the last vestiges of fighters loyal to Libyan leader Moamer Kadhafi. AFP PHOTO / Filippo MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
A rebel steps on the green Libyan flag laying on a street of the capital Tripoli on August 25, 2011, as rebel forces root out the last vestiges of fighters loyal to Libyan leader Moamer Kadhafi. AFP PHOTO / Filippo MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Oggi la Stampa, il Corriere della Sera e Avvenire ospitano tre articoli con cui i quattro giornalisti italiani rapiti mercoledì raccontano quanto successo loro, dal sequestro alla liberazione. I quattro sono Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, Claudio Monici di Avvenire e Domenico Quirico della Stampa.

La strada si è fatta improvvisamente larga e silenziosa. Da una parte il lungo muro che costeggia il compound di Bab al-Azizia, a Tripoli, dall’altra un quartiere popolare di case basse. Il nostro pick-up correva veloce su un tappeto di bossoli, pietre e detriti: i resti della battaglia. Nessuno, ma proprio nessuno, intorno: solo sporadici colpi che tagliavano l’aria e la nostra concentrazione. Sentivamo, tutti, che qualcosa stava succedendo. Che il nostro viaggio, così ricco di segnali e presagi fin dall’inizio, ci stava portando al cuore di questa guerra. Ed è stato quel silenzio che l’ha rivelata a me. Avevo negli occhi e negli orecchi i colori e l’euforia chiassosa di Piazza Verde dove eravamo stati poco prima per assistere ai festeggiamenti della “presa di Tripoli” da parte dei ribelli. Raffiche in aria, caroselli di mezzi militari, gli slogan urlati a tutta voce: «Libia libera, Libia libera». Quando ci siamo rimessi in viaggio, e la strada si è aperta in un vialone spettrale, quel silenzio mi ha subito gelato. Una sensazione forte, chiarissima. Perfettamente riconoscibile da chi fa questo mestiere. È esattamente in quel momento che ho capito: eravamo in pericolo, dovevamo tornare indietro. Questione di attimi: pochi metri di asfalto. Troppo pochi per riuscire a suggerire al nostro autista di fermarsi immediatamente, invertire la marcia.

Poi è successo tutto velocemente, come in un flash. Poco più avanti, in una postazione nascosta dietro un muretto, ho scorto delle figure che si muovevano lentamente. Ho visto le divise verdi, l’emblema su un berretto dell’Esercito libico. Mi sono detto: ecco, siamo passati dall’altra parte. In una manciata di secondi la nostra macchina è stata spinta in un angolo, siamo stati circondati da uomini in abiti civili, quasi tutti armati, e poi uomini in divisa. Erano tanti. Urlavano. Urlavano tutti. Ci hanno tirato fuori dalla macchina, malmenati. Hanno cominciato a toglierci di dosso tutto quello che avevamo. Un mattatoio: mi sono sentito dentro un mattatoio. È arrivata un’altra macchina, un pick-up, di quelli con un cassone dietro semi-chiuso. Ci hanno spinti lì dentro: noi quattro giornalisti e il nostro autista. La macchina si è mossa, ha percorso cento metri. E si è fermata contro un muro. Altre persone ci hanno circondato: alcuni sporchi di sangue raggrumato, o con grossi cerotti sul volto. Hanno cominciato a insultarci. «Italiani!», «Berlusconi!», «Nato!». Infilavano le braccia e le canne dei fucili nel portellone per cercare di tirarci giù da lì. Il collega del Corriere è stato colpito forte in volto. Qualcuno intanto cercava di spostare il nostro automezzo, liberarlo da quell’assedio. Ma ci attendeva solo il peggio.

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Un foglietto spiegazzato con i nomi in arabo e due numeri di telefono è tutto ciò che ci resta, assieme a una penna rossa con la pubblicità del film Titanic, dei due veri protagonisti di questa storia: due ragazzi gheddafisti che hanno rischiato la loro vita per riportarci nella zona liberata di Tripoli, attraversando le linee nemiche e lasciandoci solo quando sono stati certi che fossimo al sicuro.

La prima cosa che ha fatto per noi Mustafa, pantaloni a scacchi e canottiera bianca, è stato di portarci acqua e biscotti, che ha depositato con un gesto brusco sul pavimento di cemento del ripostiglio in cui eravamo stati rinchiusi tra taniche vuote di benzina, una bombola di gas, bottiglie di olio di semi, scatoloni e una bandiera verde impolverata della Jamahiriya. Abdel, 30 anni, magro, barba un po’ alla Che Guevara, si è materializzato qualche ora dopo sulla porta del garage dove premeva un gruppo di miliziani che volevano caricarci su un Toyota pick-up per andare a concludere la storia a modo loro: veloce, secco, come una raffica di mitra. Abdel, disarmato, scalzo, ha preso in mano la situazione: calmando gli esaltati in tuta mimetica, rabbonendo un miliziano con elmetto e giubbotto antiproiettile, dando sulla voce ai ragazzini con la T-shirt del Milan sotto la camicia militare e il kalashnikov imbracciato con la disinvoltura dei veterani di guerra. Senza di loro, senza Mustafa e Abdel, sarebbe finita peggio, anche se sarà impossibile cancellare l’immagine di Al Mahdi, il nostro autista, riverso sul marciapiede, ammazzato a bruciapelo.

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Parlava male l’inglese, Almadhi: poche parole e ne soffriva perché era chiaro che avrebbe voluto conoscerci, aveva da raccontarci chissà quante storie del suo paese piagato, costretto ad una guerra tra fratelli. «Nessun problema» ripeteva, a ogni salto sulla strada che conduceva su per la montagna a Zintan, il suo paese, «colpa di Gheddafi» e rideva felice che avessimo capito. Si illuminava anche per le parole italiane che conosceva: motore cambio cabina sterzo differenziale… il glossarietto dell’automobile e dei suoi pezzi, tutto quello che abbiamo lasciato quaggiù in mezzo secolo di colonialismo straccione, briciole della lingua di Dante e di Ariosto. Con altri veleni ed altri guai.

A Zintan si è fermato per presentarci la sua famiglia, orgoglioso come si fa anche da noi tra la gente di montagna, brusca, un po’ selvatica che ha solo questi come gioielli, affetti orgoglio passioni che nascono tra le mura di casa. Il padre che non amava la gente di Tripoli, i cittadini così complicati, così avidi, responsabili per le loro passioni e i loro intrighi della tragedia in corso. E solo adesso posso capire fosse quasi una premonizione. Ci ha mostrato la sua collezione con orgoglio la sua collezione de «le vie dell’aria», pubblicazione degli Anni Trenta che celebrava i fasti di Balbo e dell’ala littoria, «copia in abbonamento per il municipio di Tripoli…»; antichi fogli, quasi intonsi di una Storia scomparsa. E poi i figli e il fratello, stregati davanti a computer, a osservare filmati della lotta tra rivoluzionari e gheddafisti, che sembrano un videogioco e invece sono guerra vera.

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foto: FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images