Il secondo quesito sull’acqua, nel merito

Le obiezioni di un giornalista di Altreconomia alla guida del Post, con replica

di Luca Martinelli

A Palestinian farmer works on his irrigation system supplied by water coming from a large tank (unseen) built by the Palestinian Agricultural Relief to help farmers in the village of Tamun in the West Bank, on May 12, 2011. Israel has systematically exploited the resources of the Jordan Valley in the occupied West Bank, favouring settlers over Palestinians, Israeli rights group B'Tselem said in a report. AFP PHOTO/SAIF DAHLAH (Photo credit should read SAIF DAHLAH/AFP/Getty Images)
A Palestinian farmer works on his irrigation system supplied by water coming from a large tank (unseen) built by the Palestinian Agricultural Relief to help farmers in the village of Tamun in the West Bank, on May 12, 2011. Israel has systematically exploited the resources of the Jordan Valley in the occupied West Bank, favouring settlers over Palestinians, Israeli rights group B'Tselem said in a report. AFP PHOTO/SAIF DAHLAH (Photo credit should read SAIF DAHLAH/AFP/Getty Images)

Nella sua Guida ai referendum abrogativi Francesco Costa scioglie in modo inadeguato alcuni “nodi” relativi, in particolare, al secondo quesito referendario. Scrive, ad esempio, che in caso di vittoria del sì “per le società che gestiscono le risorse idriche sarebbe impossibile realizzare profitti dalle tariffe: si tratterebbe, in sostanza, della fine degli investimenti privati nelle società che gestiscono le risorse idriche”; aggiunge, poi, che “questo implicherebbe progressivamente lo scioglimento delle società miste attualmente operanti sul mercato, la necessità per gli ATO di ri-acquistare le loro quote e l’obbligo di realizzare investimenti nel settore soltanto con risorse pubbliche e soltanto a fondo perduto”. La confusione aumenta laddove Costa segnala che (secondo i sostenitori del No) “solo i soggetti privati possono garantire gli ingenti investimenti necessari al sistema di gestione delle risorse idriche, dato che i soggetti pubblici non hanno la disponibilità economica per realizzare investimenti a fondo perduto, a meno di scaricarne i costi sulle tariffe o sulle tasse”.

Vale la pena chiarire che una cosa è il profitto e una cosa il tasso di remunerazione degli investimenti. Ciò che non è chiaro è perché un’eventuale gestore privato -perché nella situazione attuale il capitale privato è già presente, in buona parte del Paese, e con buona pace dei detrattori dei quesiti referendari- non sia chiamato a ricavare “profitto” (da garantire ai propri azionisti a fine anno, staccando cedole a partire dagli utili di gestione) rendendo più efficiente il proprio lavoro (e quindi migliorando la differenza tra costi e ricavi, nel proprio conto economico), ma veda il proprio bilancio favorito dal fatto che i cittadini subiscono il ricarico di extra-costi in bolletta (perché in bolletta, i cittadini non pagano solo il costo del servizio… e spesso non sono nemmeno informati). Non vale la pena soffermarsi sulla grave imprecisione che identifica gli Ato (Ambiti territoriali ottimali) con il gestore (gli Ato non potranno “riacquistare” niente, perché niente è loro… semmai sono gli enti locali, oggi, ad essere azionisti con i privati, delle società miste).

Il secondo “nodo” irrisolto, poi, è quello che riguarda gli investimenti: è demagogico scrivere che, in caso di gestioni pubbliche, gli investimenti potranno essere realizzati solo a costo “di scaricarne i costi sulle tariffe”; è demagogia perché quello descritto non è il -potenziale- risultato di un sì al referendum, ma è la situazione attuale, visto che la legge in vigore dal 1994, la Leggi Galli, già carica ogni costo d’investimento in tariffa. È ideologico parlare di “fiscalità generale” per finanziare gli investimenti su una rete che, anche laddove è affidata ai privati, resta pur sempre pubblica? È ideologico, semmai, chi ha condotto campagne elettorali annunciando che non avrebbe mai messo le mani in tasca agli italiani, salvo far pagare una “tassa occulta” in tariffa, come questa sugli investimenti sugli acquedotti. Contribuire alla spesa pubblica con questa modalità, tra l’altro, ha un “che” d’incostituzionale, laddove la carta fondamentale spiega che il cittadino deve partecipare alla spesa pubblica tramite la fiscalità in modo proporzionale al proprio reddito. Così, invece, si partecipa in modo proporzionale rispetto ai propri consumi. Non quelli pro-capite, ma quelli familiari. Pensiamo alla differenza di contributo tra una famiglia monoreddito di quattro persone, e una famiglia monoreddito di una persona… sono i primi a “contribuire di più”. E l’equità dove la mettiamo?

Luca Martinelli è giornalista di Altreconomia e autore del libro “L’acqua (non) è una merce” (Altreconomia, 2011)

Caro Luca, grazie per le osservazioni. Ti rispondo punto per punto. Che la vittoria del Sì al secondo quesito rappresenti “la fine degli investimenti privati nelle società che gestiscono le risorse idriche” è una delle poche cose su cui sono d’accordo sia i sostenitori del Sì, che lo dicono apertamente, che quelli del No: la differenza è che per i primi è uno scenario auspicabile mentre per i secondi è uno scenario da evitare. Cosa succederebbe in caso di vittoria del Sì lo sapremo con certezza solo vedendolo, visto che altri interventi legislativi possono modificare o chiarire il quadro: è certamente vero, però, che la famosa norma del 7 per cento è alla base delle (poche) concessioni oggi affidate a società private o miste e che quindi progressivamente quei contratti andrebbero ridiscussi. A fronte dell’abolizione completa della remunerazione del capitale investito e quindi della “impossibilità di trarne profitto”, come dicono i comitati per il Sì, sarebbe proibitivo trovare investitori privati, a meno che questi non siano interessati a fare beneficenza. In ogni caso, qui ti limiti a dire che queste valutazioni sono imprecise senza spiegare perché.

Scrivi che “vale la pena chiarire che una cosa è il profitto e una cosa il tasso di remunerazione degli investimenti” e questo è chiarito nella guida, dove scrivo che “di questa quota [il famoso 7 per cento] fanno parte sia i profitti che gli oneri finanziari derivanti dai prestiti”. Scrivi che già adesso i costi d’investimento sono scaricati in tariffa e questo è esattamente quello che è scritto nella guida, dove si spiega che “per legge non è più possibile pagare i costi di gestione del servizio con la fiscalità generale, cioè con le tasse, ma solo con le tariffe”.

Occhio, poi: più volte contesti come se fossero mie quelle che io nella guida indico esplicitamente come le posizioni del No. Io le ho riportate senza commentarle così come ho fatto con quelle del Sì, che probabilmente altri potranno giudicare altrettanto imprecise o demagogiche. Per esempio, che le tasse siano destinate ad aumentare in caso di vittoria del Sì è una posizione del No, da me chiaramente indicata come tale. Che la loro posizione sia sbagliata, iniqua e demagogica è una tua legittima opinione, che non ha a che fare con l’accuratezza della guida (ti segnalo, però, che pagare l’acqua in proporzione al reddito e non ai consumi rappresenta un gigantesco disincentivo all’uso responsabile di una risorsa molto preziosa e che in Italia costa già poco come in nessun altro paese europeo). L’unica vera imprecisione che riscontro, tra quelle che cortesemente mi segnali, è quella sugli ATO, in cui ho semplificato eccessivamente. Hai ragione, gli ATO non possono riacquistare: sono le società costituite o partecipate dagli enti locali che eventualmente riacquisterebbero le quote e otterrebbero dagli ATO la gestione delle risorse idriche. Correggo quel passaggio e ti ringrazio.

Francesco Costa

foto: SAIF DAHLAH/AFP/Getty Images