Il Grande Maestro e il computer

La storia di Magnus Carlsen, numero due del mondo degli scacchi rivoluzionato

di Giovanni Zagni

Magnus Carlsen è un ragazzo norvegese di vent’anni, con il mento prominente e l’aria da bambino. Compare sui cartelloni pubblicitari con espressione piuttosto minacciosa, testimonial della marca di abbigliamento olandese G-Star RAW.

Anche se divide il ruolo con l’attrice Liv Tyler, Magnus non è un calciatore, né un modello, né una stella del cinema. Magnus Carlsen gioca a scacchi, ed è un “Grande Maestro” (il massimo riconoscimento possibile per uno scacchista) da quando aveva tredici anni.  Per il New Yorker, D. T. Max ne ha scritto un lungo ritratto.

La storia di Magnus è solo una tra le mille che valgono la pena di essere raccontate intorno agli scacchi: personalità fuori dal comune come quella di Bobby Fischer, sfide storiche come quella di Karpov contro Kasparov, aspre rivalità personali e nazionali. Negli ultimi anni, il mondo degli scacchi ha visto un grande cambiamento, e Magnus ne è parte, anche se forse non gli fa piacere sentirselo dire. Ma per raccontare la sua storia fin dall’inizio bisogna tornare indietro di qualche anno.

“L’ultima battaglia del cervello”
Nel 1985 Garry Kasparov – leggendario campione russo – giocò un incontro simultaneo di scacchi contro trentadue computer diversi, inviati per l’occasione ad Amburgo dai maggiori produttori di software per scacchi del mondo. In cinque ore di gioco, Kasparov li batté tutti. Oggi ricorda quei giorni con nostalgia: finiranno bruscamente poco più di dieci anni dopo nella celebre serie di partite contro “Deep Blue”, un evento che entrerà nella storia.

Nel 1996, in una prima serie di sei partite, Kasparov batté il computer dell’IBM per 4-2, perdendo la prima ma vincendo tre volte nelle successive (le rimanenti finirono in pareggio, che vale mezzo punto a testa). L’unica sconfitta di Kasparov, però, aveva già stabilito un primato: per la prima volta, un computer aveva vinto una partita contro un campione del mondo in carica. L’anno dopo, IBM si presentò alla rivincita con una versione della macchina profondamente rivista (soprannominata “Deeper Blue”). Kasparov vinse la prima partita; Deep Blue la seconda, in un match che, a distanza di anni, Kasparov accusò di essere truccato. Dopo tre pareggi, Kasparov perse l’ultima partita per un errore nel gioco di apertura: la serie si concluse così con un 3½ a 2½ per Deep Blue. Il giorno dopo, molti giornali celebrarono la sconfitta dell’umana intelligenza davanti al computer con titoli come “L’ultima battaglia del cervello”. Ottenuta l’enorme pubblicità che circondò l’evento, IBM ritirò Deep Blue e lo smantellò, negando a Kasparov una nuova rivincita.

L’ex campione del mondo non l’ha mai digerita e ci tiene ancora oggi a sottolineare che Deep Blue vinse unicamente grazie alla sua mostruosa capacità di calcolo, che gli permetteva di valutare duecento milioni di mosse prima di scegliere quale pezzo muovere. Il successo dei programmatori di computer, dice, non avvicina in nessun modo la macchina al modo di pensare degli esseri umani: «Deep Blue era intelligente solo nel senso in cui lo è la vostra sveglia programmabile.»

Non tutti hanno dimostrato lo stesso disprezzo per le sveglie da svariati milioni di dollari. Richard Dawkins, nel suo libro di grande successo Il gene egoista (1976), aveva scelto proprio i programmi di scacchi per esporre i progressi dei computer. I programmi, diceva, sono in grado di tenere in considerazione le partite che giocano e di adattare la loro strategia in base agli errori passati; in altre parole, dimostrano una “proprietà” che, dall’esterno, è del tutto simile all’umana facoltà di imparare.

Solo pochi anni dopo, il posto di Deep Blue è stato preso da programmi che chiunque si può procurare per qualche decina di euro, e anche tutti i giocatori più forti del mondo devono farci i conti. Magnus Carlsen non fa eccezione, nonostante sia uno che preferisce fare le cose di testa sua.



Magnus
Magnus Carlsen è un giocatore professionista dall’età di quindici anni (è nato nel 1990) e ogni anno passa più di 160 giorni in viaggio tra un torneo e l’altro, spesso accompagnato dal padre Henrik. Quando non è in viaggio, vive con la sua famiglia a Baerum, un sobborgo di Oslo.  Due anni fa ha lasciato la scuola senza diplomarsi. Molto introverso, come ci si aspetta da un campione di scacchi, mentre è in viaggio passa le sere nella sua camera d’albergo, guardando serie TV sul portatile (le sue preferite sono A-Team e la serie comica Curb Your Enthusiasm). A casa, in Norvegia, gioca a Wii Sports Resorts e a Mario Kart, oppure fa il karaoke con le sue sorelle.

Molti dei più grandi scacchisti del XX secolo hanno iniziato a giocare da bambini: il cubano Capablanca, ad esempio, iniziò a quattro anni. Carlsen sviluppò un vero interesse per il gioco intorno agli otto, su incoraggiamento del padre. Aveva già dimostrato grandi doti matematiche e ottima memoria, ma era anche molto sportivo e, fino ad allora, preferiva il calcio o gli sci agli scacchi. Ma a poco a poco le cose cambiarono: iniziò a consultare i libri sugli scacchi che aveva in casa e la sua passione crebbe fino a farlo disinteressare completamente della scuola. La trovava noiosa e smise completamente di fare i compiti. Dopo un anno di gioco, batté suo padre per la prima volta. Suo padre è stato un buon giocatore da giovane, e a partire dal 2000, quando Carlsen aveva nove anni, iniziò a fargli prendere lezioni settimanali da un insegnante di scacchi.

Rispetto ad altri giovani giocatori della sua generazione, Carlsen aveva un rapporto meno stretto con il computer. Gli piaceva usarlo per trovare sfidanti, ma non giocava quasi mai contro un programma. «È come giocare con qualcuno che è molto stupido ma ti batte lo stesso», diceva. All’inizio della sua carriera, lo stile di Carlsen era molto aggressivo: gli piaceva giocare il più possibile d’attacco, aveva un grande senso della posizione e lo studio dei libri di strategia gli aveva fornito una grande varietà di mosse. Nel 2001, a dieci anni, iniziò ad allenarsi con Simen Agdestein, uno dei migliori gran maestri norvegesi. Nei tre anni in cui lo seguì, Agdestein rimase sempre colpito dal talento che aveva il bambino per il gioco. Carlsen, dice, faceva da solo gran parte dell’allenamento, giocando su internet qualcosa come settemila partite in tre anni.

Nel 2003, Henrik Carlsen, il padre di Magnus, prese un anno di pausa dal suo lavoro, ritirò i bambini da scuola e insieme a loro e alla moglie iniziò un viaggio di tre anni su un minivan per l’Europa. Insieme alle visite turistiche alle città d’arte e alle spiagge, la famiglia girò per i tornei di scacchi a cui partecipava Magnus, in modo da trovargli le sfide di alto livello che in Norvegia mancavano. In più di centocinquanta tornei Magnus ottenne ottimi risultati. Dopo le partite contro avversari in carne ed ossa – soprattutto se perdeva – accendeva il suo computer e trovava altri avversari online. «Serviva a dimostrarmi che ero ancora capace di vincere una partita». In un torneo del 2004 a Reykjavik, Carlsen batté l’ex campione del mondo Anatoly Karpov in una partita di blitz chess, in cui ad ogni giocatore sono dati cinque minuti di tempo per fare tutte le mosse. Poi perse malamente contro Garry Kasparov in due partite di rapid chess, in cui il tempo per giocatore è di venticinque minuti. Kasparov si accorse però di avere davanti un ottimo giocatore: un mese dopo, il suo curriculum di risultati rese Carlsen Grande Maestro, all’età di 13 anni e quattro mesi – il terzo più giovane della storia.

La notizia dette al ragazzo notorietà internazionale. Ora era al livello di giocatori che avevano allenatori a tempo pieno o collaboratori che lavorano con i database per provare le aperture (le fasi iniziali del gioco) contro gli avversari futuri. Ma Magnus continuò a lavorare soprattutto per conto suo. Non pensava di essere il migliore e non sembrava aver fretta di diventarlo. Anche suo padre sa che il suo modo di allenarsi è poco rigido e sistematico: «Fa quello che gli piace… è la curiosità opposta alla disciplina.»

Dato che Carlsen ha speso meno tempo degli altri ad allenarsi contro il computer, ne è stato meno influenzato nel modo di giocare. Ha più fiducia nel suo intuito e nel suo giudizio, e questo a volte mette in difficoltà gli avversari che usano pesantemente i programmi e i database. Continua a provare nuove strategie e a sperimentare. Questi sono alcuni dei motivi per cui, ad un’età in cui molti bambini prodigio degli scacchi entrano in crisi, Carlsen ha continuato a migliorare. Nel 2004, quando batté Karpov, era il numero 700 del ranking mondiale; nel 2008 era il sesto. Nel 2009, suo padre assunse Kasparov come maestro del figlio. Anche se è un istruttore piuttosto caro (la sua tariffa annuale è di diverse centinaia di migliaia di dollari) la famiglia di Carlsen pensò che ne valesse la pena. Lo stesso Kasparov, dopo il torneo del 2004 a Reykjavik, aveva tenuto d’occhio il ragazzo e non vedeva l’ora di prendersene cura.

Un anno dopo l’inizio della collaborazione, il primo gennaio 2010, Magnus Carlsen diventò il numero uno della classifica mondiale: l’allenamento con Kasparov gli era servito moltissimo. La classifica è basata sul rating “Elo”, che tiene conto dei risultati nei tornei. A marzo dello scorso anno, Carlsen aveva il secondo punteggio Elo più alto della storia, secondo solo al suo maestro Kasparov. Negli stessi giorni, però, il rapporto si interruppe. Mentre Carlsen era a un torneo a Wijk aan Zee, in Olanda, Kasparov propose al ragazzo un’apertura diversa da quella che avevano concordato, solo un’ora prima di una partita contro il russo Kramnik. Magnus perse la partita: anche se vinse il torneo, decise che lui e Kasparov erano semplicemente troppo diversi. Kasparov ora pensa che Carlsen abbia gettato una grande occasione per diventare ancora più forte solo per paura di dover lavorare duro. Nella sua reazione si sente la tradizione di rigidità e disciplina che viene dalla grande tradizione sovietica nel gioco degli scacchi.


Un avversario imbattibile
Fu Lenin, giocatore appassionato, a far diventare l’Unione Sovietica la patria degli scacchi, fondando la Scuola Sovietica di Scacchi nel 1920. La Scuola Sovietica formò generazioni di giocatori imbattibili, tanto che nel 1991, quando cadde l’URSS, i primi nove giocatori della classifica mondiale venivano da lì.

I paesi occidentali risposero al dominio degli scacchisti sovietici investendo su un giocatore solo che li avrebbe potuti battere tutti: il computer. Gli scacchi sono uno sport incredibilmente complesso, con un numero totale di partite possibili che, è stato detto con una formulazione ad effetto, è più grande del numero di atomi dell’universo. Difficile, se non in un lontanissimo futuro, che anche per gli scacchi succeda come alla dama, per la quale nel 2007 è stato calcolato il gioco perfetto: ovvero trovare, tra tutte le partite possibili, la successione di mosse che assicura la vittoria qualunque siano le mosse dell’avversario. Ci sono situazioni in cui un computer non sbaglia mai, ma sono limitate a quando sulla scacchiera ci sono meno di sei pezzi.

Era impossibile, dunque, scegliere la strada di far replicare ai computer tutte le partite possibili, e allo stesso modo era impossibile replicare il modo in cui pensa un grande maestro. Ma la macchina aveva dalla sua parte la forza bruta: a partire dagli anni Ottanta i software divennero veramente competitivi, perché la velocità di calcolo permetteva al computer di “vedere avanti” una decina di mosse per ogni scenario e, semplicemente, di scegliere il migliore.

Lo sviluppo dei software poteva servire a battere l’Unione Sovietica, ma la macchina non faceva grandi differenze di nazionalità; nel corso degli anni il computer è diventato un avversario imbattibile per tutti, perché i processori di oggi sono così potenti da rendere nella pratica impossibile, per un essere umano, vincere una partita. Nel mondo degli scacchi, anche al massimo livello, gareggiare contro un computer è diventato solamente oggetto di amara ironia. Il grande maestro olandese Jan Hein Donner, alla domanda su quale strategia userebbe contro un computer, ha risposto: «Userei un martello».

La poesia degli scacchi
Il computer non è solo un avversario imbattibile per cui dimostrare disprezzo, o che si può pensare di mettere da parte con una battuta. La sua presenza ingombrante ha influenzato direttamente il modo in cui gli esseri umani giocano a scacchi. Anzitutto nella preparazione, dato che oggi si può diventare giocatori di discreto livello senza mai sfidare un avversario umano. Si possono comprare i database delle mosse di centinaia di tornei: chiunque ha a disposizione più informazioni di quelle che aveva a disposizione il più preparato tra i grandi maestri sovietici. Il livello del gioco si è alzato in tutto il mondo, perché attraverso il computer i confronti sono continui e simultanei, mentre prima erano limitati dagli spostamenti e dall’organizzazione di tornei internazionali. Il gioco online ha anche reso possibile che un ragazzo proveniente dalla Norvegia, che fino ad allora non aveva mai prodotto grandi campioni, abbia conquistato il primo posto della classifica mondiale.

Ma i commentatori dicono che, se il livello è migliorato, il gioco ne ha perso in stile. Dopo aver provato migliaia di possibili aperture al computer, anche i giocatori più esperti hanno iniziato a evitare quelle che i software ritengono più deboli. Carlsen trova il gioco dei computer inelegante, e si lamenta delle loro «mosse bizzarre che non riesco a capire», mentre per descrivere il suo stesso gioco parla di ottenere “armonia” tra i pezzi, e perfino di “poesia”.

Magnus Carlsen si prepara poco alle sfide dei tornei. A volte, la sera prima della gara, resta alzato fino a tardi con i videogiochi o giocando a poker online. Poi va a letto, dorme dieci ore e si sveglia un’ora o due prima della gara. Mentre gran parte dei giocatori pianifica attentamente la strategia, e decide fino a una dozzina di mosse iniziali, Magnus si presenta ad alcune partite con in testa solo la prima. Nonostante questo, vince.

Anche i grandi maestri si annoiano
Nell’ultimo periodo, però, Magnus ha avuto un calo di risultati. Due mesi fa, durante la terza giornata dell’importante torneo di Wijk aan Zee (quello che anni prima aveva causato la rottura con Kasparov), Carlsen ha perso male un incontro contro Anish Giri, un sedicenne olandese che non è neppure ancora un giocatore professionista. Alla fine del torneo aveva perso la prima posizione nella classifica mondiale, superato dall’indiano Anand. Un suo ammiratore dice, a proposito del suo calo:

«Ho una nuova teoria. Magnus è così forte che è semplicemente annoiato. (So dalla mia personale esperienza che si annoia facilmente.) Così ha pensato una nuova strategia per rendergli le cose più interessanti: giocare come un incapace per le prime partite, finire in fondo al tavolo, e poi provare a vincere il torneo lo stesso.»

La sua crisi però non sembra essere solo frutto dell’amore per la difficoltà. Negli incontri successivi del torneo di Wijk, Magnus racconta di aver sentito, forse per la prima volta, un serio calo di fiducia verso se stesso e i propri mezzi.

Carlsen intende correre subito ai ripari. Si è messo in contatto con Wesley So, un grande maestro filippino di diciassette anni, e gli ha offerto di pagargli il viaggio per l’Europa per allenarsi insieme.  So ha accettato e la collaborazione sembra funzionare. Carlsen ha scelto So perché ha un gioco “stilisticamente opposto” al suo. Ha detto al New Yorker, con un certo stupore: «Penso che tutto il suo allenamento sia stato con un computer». Forse giocare in modo più simile agli altri smetterà di divertirlo, ma lui non sembra scomporsi. Quando gli scacchi smetteranno di divertirlo, dice, farà altro: «Se hai tutto il tempo la sensazione che non ti diverta più, che senso ha continuare?»

Anche se Magnus si dice poco interessato alle partite contro il computer, il suo successo è anche frutto dei grandi cambiamenti che i software hanno portato nello sport. Il suo stile, poi, è cambiato negli ultimi tempi in un modo curioso. I computer hanno uno stile di gioco molto aggressivo, perché sono impostati per migliorare nel modo più rapido possibile le loro possibilità di vincere. L’unico modo per metterli in difficoltà, dice un programmatore, è “non fare nulla, e farlo bene”. La strategia di gioco più appropriata è quella “posizionale”, che ha come primo obbiettivo il controllo completo della scacchiera ed è meno concentrata sul raggiungere lo scacco matto. Lo stallo apparente che si protrae per molte mosse, mentre gli spostamenti dei pezzi lavorano a creare il dominio territoriale, sembra mandare in crisi il computer, che contrasta in modo meno efficiente questa strategia attendista. Carlsen, nel corso del tempo, ha giocato sempre più spesso in modo “posizionale”, abbandonando la sua strategia iniziale votata all’attacco. È bello immaginare, e un po’ romantico, una sfida in cui un nuovo Deep Blue sia sconfitto, e ci dimostri che il cervello ha perso solo alcune battaglie ma la guerra non è finita.