Cosa possiamo fare per aiutare i libici

Bernard-Henri Lévy lo ha chiesto a molti manifestanti e ha raccolto sei proposte

Sul Corriere della Sera di oggi, un lungo articolo di Bernard-Henri Lévy descrive le sei proposte che questo ha raccolto chiedendo a molti cittadini libici cosa possiamo fare per sostenere la loro rivoluzione. Nessuno vuole un’invasione militare ma ci sono molte cose che la comunità internazionale potrebbe fare: a cominciare dall’instaurazione di una no-fly zone, che il Post aveva spiegato qui.

Cosa possiamo fare per la giovane rivoluzione libica? È la domanda che il mondo si pone su quella, fra le rivoluzioni arabe, che fin d’ora è oggetto della repressione più selvaggia. E, ahimè, non è finita qui. Allora, a Tobruk, la prima città della Libia libera arrivando via terra dall’Egitto, pongo la domanda a Farid Rafa, 37 anni, ex ufficiale che fin dal primo giorno dell’insurrezione ha fraternizzato con il popolo e «tiene» , con altre persone riunite sotto una tenda, l’ex piazza della Jamahiriya ribattezzata con il nome di una vittima del regime, Mahdi Elias. La pongo a Ali Fadil, vecchio professore di fisica e chimica che espone, in una scuola in disuso, i disegni di alcuni giovani: si vede Gheddafi con baffi ridicoli e grotteschi; Gheddafi travestito da re dei topi; Gheddafi nelle sembianze di una donna truccata e piena di botulino; Gheddafi nudo, con le mani che nascondono il sesso, mentre fugge da una folla insolente e gioiosa; la testa di Gheddafi che annega in un mare di sangue, e così via— meraviglie di immaginazione spassosa e di invenzione popolare. La rivoluzione genera talento…

Pongo la domanda, vicino a Derna, ad Ali Ramadan e a Najib Ektet, due contadini che ricostituiscono, per Gilles Hertzog e per me, la battaglia che con 300 dei loro compagni hanno condotto, il 27 febbraio, per il controllo dell’aeroporto di Alabraj, dove la Guida aveva fatto atterrare otto aerei carichi di truppe, carri armati e pick-up destinati a prendere, con la forza, la città di Beida, a pochi chilometri da lì: il giorno del nostro passaggio, si vedevano ancora centinaia di bossoli vuoti, a testimonianza del contrattacco, riuscito, degli abitanti del villaggio; coperte di lana abbandonate, fra gli arbusti, da mercenari kenioti, nigeriani, algerini e ciadiani ai quali i loro ufficiali non avevano detto nulla, come al solito, della loro missione, se non dopo che gli aerei erano di nuovo decollati verso Tripoli; e, sulla pista, mucchi di pietre, erpici, un camion dei pompieri capovolto, il radar della torre di controllo, sedili, tutto quello che si era potuto trovare per neutralizzare, dopo la vittoria, l’aeroporto e impedire che un’operazione simile si potesse mai riprodurre.

Pongo la domanda, a Bengasi, capitale della Libia libera, ai rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione che mi hanno fatto l’onore di poter assistere a uno dei loro consigli e di prendervi la parola; la pongo in particolare a Abdul Hafiz Gogha, avvocato, ex presidente del Tribunale libico, che incarna l’aumento di prestigio e potenza dei giudici in seno a questa amministrazione provvisoria. Dico provvisoria, poiché questi amministratori di circostanza, decine di uomini e donne che si sono reciprocamente cooptati, fra il 17 e il 25 febbraio, per far funzionare i servizi pubblici dopo il fuggifuggi dei funzionari del vecchio regime, insistono tanto sul fatto che non ci potrà essere, a termine e a loro avviso, altra soluzione se non quella unitaria per una Libia solidale fra le sue tre immense province di Cirenaica, Tripolitania e del Sud. La pongo ad altri ancora, ovunque io passi, a seconda degli incontri. E tutti sono d’accordo su una serie di richieste semplici, chiare, alla portata delle grandi democrazie e che non hanno nulla a che vedere, soprattutto, con un intervento militare terrestre, da loro non auspicato (increscioso precedente della guerra americana in Iraq) e di cui non hanno bisogno (Tripoli è così lontana…; organizzare un’offensiva terrestre supporrebbe, per Gheddafi, una logistica di cui non ha più i mezzi nello stato di sbandamento avanzato in cui si trovano oggi, secondo nostre informazioni, il suo regime e il suo esercito… La minaccia, in realtà, viene dal cielo, come testimoniano, a tutti gli incroci di tutte le città che attraversiamo, i pick-up equipaggiati di batterie antiaeree obsolete, con la bocca ansiosamente puntata verso il cielo…).

(continua a leggere sulla rassegna stampa del ministero della Difesa)