Le parole di Silvio Berlusconi di sabato sulla scuola possono essere state sintetizzate sbrigativamente, “travisate”, strumentalizzate, da alcuni media e commentatori che le hanno poco indagate: ma non c’era molto da indagare. Anche lette nella loro esattezza erano già troppo da parte di un Presidente del Consiglio che nei confronti degli sforzi di scuole e famiglie per ricostruire un sistema di modelli condiviso dovrebbe essere complice, e non demolitore. Questo spiega oggi sulla Stampa Marco Rossi Doria, insegnante.
Il presidente del Consiglio ha affermato che «la scuola pubblica insegna principi contrari a quelli delle famiglie». Poiché egli è tenuto, nella sua qualità di capo del governo, a favorire l’unità degli italiani, questa affermazione (seguita dalla rituale smentita) dovrebbe fondarsi sui problemi educativi comuni a tutti gli adulti responsabili. E non lo fa.
Inoltre essa appare molto distante dalle questioni educative che sono oggi sul campo.
Infatti, nell’Italia di ogni giorno, genitori di famiglie unite o separate, docenti delle scuole pubbliche o private, educatori del privato sociale laico o cattolico, allenatori sportivi, capi-scout, genitori volontari degli oratori, stanno tutti affrontando, da diversi punti di vista, la crescente, comune difficoltà di una crisi di valori e di modelli.
Vi è stato, infatti – negli ultimi decenni – un mutamento radicale del paesaggio antropologico entro il quale si educa. I modelli adulti – nei media, nella politica, nel mercato, nel costume – stanno mettendo a dura prova, anche di recente, i principi dell’educare. Perché le parole in famiglia e a scuola vengono smentite in modo potente. Lo sa bene chi opera ogni giorno. Lo ha scritto la Cei nel suo prezioso documento dell’anno scorso. E soprattutto lo ripetono i ragazzi, delusi e spaesati. Ma ancor prima di questo, due possenti mutamenti hanno cambiato la posizione della scuola e la relazione tra scuola e famiglie.
Il primo mutamento riguarda il fatto che, a differenza di oggi, fino a una generazione e mezzo fa, ogni bambino veniva affidato dalla famiglia a un gruppo di altri bambini, coetanei o poco più grandi entro cui provarsi, specchiarsi, riconoscersi. E insieme ai quali si condividevano i tempi ripetuti e i luoghi oltre le mura di casa e anche diversi dalla scuola: quartiere, paese, cortile, rione, piazzetta, condominio, campagna. Era la prima palestra della socialità. Che abituava a funzionare entro una comunità di coetanei regolata intorno al gioco ma anche intorno all’essere progressivamente capaci di…. Tanto che ogni nuovo venuto imparava a vivere il riscontro giornaliero «di fare parte di», le piacevolezze proprie delle relazioni e costruzioni progettuali comuni e anche le sue prove e frustrazioni. Era un sistema accettato di regole, prove e ritualità tra coetanei. Con gli adulti in posizione presente ma distante, non intrusiva.
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