Il posto più brutto del mondo

L'Espresso racconta la terrificante capitale della Mongolia

Ulan Bator è la capitale più brutta e più fredda al mondo. È questa la fama di cui gode. Oggi, mentre scrivo, ci sono 17 gradi sotto zero, il cielo è limpido. La notte la temperatura dovrebbe arrivare a meno 30. Ma quando siamo stati qui in agosto il termometro mostrava più 30. Sulla città gravava un’afa soffocante e fetida. I venditori ambulanti di sigarette e carte telefoniche portavano le mascherine per ripararsi dalla polvere. Al posto delle labbra avevano delle macchie giallastre. La città si trova in una conca. Le colline aride e nude iniziano a ridosso delle ultime case e delle ultime iurte (le tende di feltro dei nomadi mongoli). Non ci sono periferie.

Tutto inizia all’improvviso e in maniera eccessiva. Dalla steppa illimitata si arriva direttamente nel cuore di una bizzarra metropoli.

Ancora all’inizio del XX secolo qui non c’era nessuna città nel senso comune del termine. C’erano solo delle iurte e le case a un piano dei mercanti russi e cinesi. Oltre a loro, secondo alcune fonti, in quel luogo vivevano 60 mila monaci che rendevano omaggio a 30 mila statue di Budda. Oggi il buddismo comincia appena a risorgere dopo lo sterminio fisico procuratogli dalla rivoluzione mongola degli anni Trenta del secolo scorso. La città invece vive un’esistenza duplice, triplice. Vive a un ritmo isterico. Come a volersi rifare della sua nascita tardiva. Eretta sulla steppa, sulla nuda terra, rammenta un’anti-utopia cittadina. Le iurte si trovano quasi nel centro della città, ma costituiscono anche gli ultimi piani dei palazzi non terminati di costruire. Questa architettura tessile si mescola al realismo socialista sovietico degli anni Quaranta, ai palazzi di cemento armato degli anni seguenti.

Tutto ciò che è in muratura è sghembo, malfatto, come se fosse il risultato di un gioco da bambini. In fondo, oltre ai conventi qui non si è mai costruito nulla di stabile. Qui erano mobili persino i palazzi dei principi e dei comandanti. Sulle banconote da 500 e da mille tughrik da un lato c’è il ritratto di Gengis Khan, e dall’altro l’immagine della sua residenza nella steppa: 22 buoi che trascinano una tenda sistemata su una piattaforma circolare. Dunque la città è qualcosa di nuovo, e nel corso di un solo secolo è stato necessario ripassare una lezione millenaria; fra le iurte, fra le casupole di legno e il neoclassicismo staliniano si innalzano grattacieli di vetro. Uno di essi si trova in pieno centro ed ha la forma di una grande vela.

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